venerdì 15 febbraio 2013
Non è un uomo qualunque che parla
XI JINPING: MAI COME L'URSS
di Eugenio Buzzetti
Twitter@Eastofnowest
Pechino, 15 feb. - Non fare la fine dell'Unione Sovietica. E' questo l'imperativo categorico di Xi Jinping, il timore più grande. Lo ha detto a porte chiuse ad alcuni alti funzionari durante il suo viaggio nel Guangdong, a dicembre, ma la notizia è arrivata solo oggi, dal New York Times. A fare cadere l'URSS, secondo le parole pronunciate dal neo-segretario generale del Partito Comunista Cinese, sarebbero stati il marciume politico, la perdita dell'ideologia e i complotti militari. Nel Guangdong del turbo-capitalismo, e in occasione del suo primo viaggio come leader in pectore della Cina, Xi Jinping ha voluto presentarsi agli alti papaveri del PCC come un continuatore di quella tradizione leninista a suo dire essenziale per evitare catastrofi politiche.
"Perché l'Unione Sovietica si è disintegrata? -si legge in una nota circolata tra i funzionari- Perché il partito comunista sovietico è crollato? Una ragione importante è stata che le convinzioni e gli ideali vacillavano". I toni di Xi Jinping nella nota si fanno ancora più forti quando dichiara che una sola parola è bastata per dissolvere "un grande partito" e che "nessuno" in quella circostanza "si è dimostrato un vero uomo decidendo di resistere" alla fine del PCUS. Le parole di Xi sembrano quindi in controtendenza rispetto alle voci di chi vedeva nel nuovo segretario generale del PCC una sorta di "Gorbacev cinese" che avrebbe riformato il partito e forse aperto la politica del Dragone ad alcune forme di democrazia, come era sembrato nel settembre scorso, dopo un colloquio informale con un esponente dell'ala riformatrice.
Il viaggio nel Guangdong aveva scatenato paralleli nel dicembre scorso tra il nuovo leader cinese e il padre delle riforme, Deng Xiaoping, che venti anni prima, aveva scelto proprio il sud della Cina per riconfermare l'importanza delle aperture cinesi da lui volute alla fine degli anni Settanta e che ancora oggi segnano uno spartiacque rispetto agli anni del maoismo radicale. Xi Jinping era uscito dal viaggio con l'immagine di un leader riformatore, forse non proprio in materia politica, ma che avrebbe portato novità all'apparato. I primi segnali si erano già visti proprio in occasione di quella prima visita, quando egli setsso per primo aveva voluto tenere fede alla norma anti-stravaganze che prevedeva il taglio di spese non essenziali durante i viaggi dei politici all'interno del Paese.
Se le priorità di Xi, lotta alla corruzione in testa, sembrano già fissate dai continui riferimenti del nuovo segretario generale nei primi mesi di mandato, le dichiarazioni ai funzionari del Guangdong confermano alcune tendenze già affiorate nelle scorse settimane sull'importanza che la leadership del partito riveste nella sua concezione del potere. Alcune settimane fa aveva ribadito questo concetto in un discorso noto come il discorso degli "otto doveri" in cui ha sintetizzato in otto punti la road map del partito per lo sviluppo del Paese: il ruolo dominante delle masse; la liberazione e lo sviluppo delle forze produttive; le riforme e l'apertura; la salvaguardia della giustizia sociale; l'agire bene; l'armonia sociale; lo sviluppo pacifico e, infine, proprio il ruolo guida del partito. Molti, in quell'occasione erano stati i riferimenti a Mao Zedong e a Deng Xiaoping, uno solo al suo predecessore, Hu Jintao, e nessuno a Jiang Zemin.
Il sentimento nazionalista era affiorato in un'altra circostanza, a novembre, due settimane dopo la nomina a segretario generale. Durante una visita al Museo Nazionale in cui si teneva una mostra sulla storia cinese dalla prima guerra dell'oppio in poi, Xi Jinping aveva fatto ancora riferimenti chiari a Mao e a Deng. Passato alle cronache come il discorso del "sogno cinese della rinascita", Xi aveva tracciato un profilo degli ultimi 170 anni di storia nazionale elogiando la capacità del popolo cinese di riprendersi dopo ogni fase tormentata, e lasciando intravedere che la linea politica politica che avrebbe seguito sarebbe stata quella di un cauto riformismo "con caratteristiche cinesi".
I toni dei suoi discorsi sono stati però altalenanti, e in qualche caso anche controversi, come quello di settimana scorsa, alla vigilia della pausa per le feste del capodanno cinese, per esempio, quando aveva dichiarato che il PCC deve essere aperto alle critiche e pronto a correggere i propri errori se li ha commessi, o a prevenirli. Questa apertura alla critica esterna ha subito portato alla mente di molti il parallelo storico con la linea dei Cento Fiori voluta da Mao Zedong nel 1956. Dietro una tolleranza iniziale sulle critiche al PCC, Mao aveva approfittato del breve clima di apertura per epurare gli oppositori. Uno spettro, quello dei Cento Fiori, che aveva agitato le acque di internet, con molti commenti tra l'ironico e il lievemente terrorizzato per l'infelice paragone con il passato.
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