martedì 19 febbraio 2013

e noi cosa aspettiamo a fare un canale con la Sardegna visto che il ponte stà per essere ultimato


L'ITALIA LA "CINA D'EUROPA"


di Adolfo Tamburello

Napoli, 15 feb.- Oggi le campagne tra Novara, Vercelli e Pavia sono chiamate sia la “Cina d’Europa” per via del riso, e sia “Camillolandia” perché, ce lo spiega Alessandro Gandolfi su National Geographic Italia (di novembre 2012), “a metà Ottocento Camillo Benso conte di Cavour, da agricoltore qual era, si inventò un canale che cambiò la storia del riso italiano”. Il Canale Cavour compie nel 2013 150 anni ed è stato ed è ancora più che prezioso per la risicoltura italiana.

Più in generale tutta l’Italia potrebbe essere definita la “Cina d’Europa” anche per il suo, chiamiamolo, “ciclo agrario cinese” che allogò nel Medioevo a cominciare dalla sericoltura. Sugli esordi della risicoltura si è già scritto in queste pagine.

La produzione della seta precedette di secoli quella del riso. Si vuole che con Giustiniano (482-565) i segreti della sericoltura cinese, passati già alla Persia, raggiungessero Bisanzio e, da Bisanzio o attraverso gli Arabi o gli Ebrei, si diffondesse in tutto il Mediterraneo. In Sicilia Ruggiero II (1105-1154), di ritorno dalla spedi¬zione in Grecia, ove la sericoltura prosperava già ad Atene, Corinto e Tebe, deportava nel 1146 prigionieri esperti nella coltura del baco e nella lavorazione della seta perché ne impiantassero l’arte in Sicilia. Ma sembra che già per l’incoronazione del 1130 il re normanno indossasse un sontuoso manto di seta, di manifattura locale, che ci è stato conservato. Era ancora praticata all’epoca la sola tessitura o anche la sericoltura era già stata attivata? Alcuni vorrebbero che la Sicilia sperimentasse la bachicoltura fin dal secolo VIII, altri dal IX, altri ancora dal X-XI. Nel primo Novecento, Della Corte proponeva che il primo centro di bachicoltura in Italia fosse la Campania longobarda, che la sperimentava anteriormente alla metà del secolo VIII. Per altri, erano Crotone e Catanzaro a riceverla direttamente da Bisanzio.

Nella sua strada verso il Nord, la sericoltura raggiungeva Lucca, Firenze, Genova, Vicenza e Venezia e la sua manifattura faceva ricorso ad apparecchiature che avevano sicuramente avuto origine in Cina. Parliamo delle macchine d’avvolgimento dei filati, dei fusi ad alette, dei telai per la tessitura a disegni e anche dei coloranti e procedimenti di tintura, che erano i medesimi di quelli della Cina. Lo stesso dicasi dei filatoi a ruote idrauliche, dei mulini da seta, degli incannatoi meccanici, innovazioni introdotte a Lucca dal secolo XIII e successivamente perfezionate presso gli opifici bolognesi e piemontesi.

Dal secolo XIV usciva profondamente modificata la manifattura tessile italiana ed europea, arricchita la varietà dei tessuti con ricami e broccati, perfino con profitto per l’arte del tappeto.

Nei repertori ornamentali, almeno dalla metà del secolo XIV i tessitori di Lucca, perfezionando l’arte portatavi da Gaetani e Amalfitani ivi trasferitisi, si cimentavano in motivi figurativi cinesi, specialmente disegni di animali mitici o favolosi (draghi, fenici, leoni alati) che rinnovavano i repertori delle arti tessili. Ispirazioni potevano provenire anche dai riscontri sulle porcellane cinesi frattanto conosciute.

La porcellana era una classe di ceramiche dure fatte di impasti di caolino e feld-spato vetrificate a gran fuoco, inscalfibili alla punta dell’acciaio. La Cina l’aveva collaudata dai primi secoli dell’era cristiana e, presto diffusasi nell’Asia centrale e meridionale, gli Europei avevano cominciato a rifornirsene nel Vicino Oriente prima di riceverla direttamente dalla Cina. Il Tesoro della Basilica di San Marco a Venezia custodisce, insieme con la cosiddetta “giara di Marco Polo” e altre ceramiche cinesi, un vasetto di porcellana che è stato addirittura datato al secolo X. Ai secoli XIII-XIV risalgono i frammenti di porcellana ritrovati fra le rovine del Castello di Lucera, in Puglia. Di due piccole porcellane presenti nella casa regnante di Napoli agli inizi del secolo XIV, si ha notizia dal testamento della regina Maria D’Angiò del 1323. A quell’epoca le porcellane arrivavano in gran numero attraverso gli Arabi, rientrando fra i doni munifici di sultani e altri notabili musulmani. Costoro le ricevevano a loro volta dalla Cina e le riciclavano a potenti e nobili europei come i Dogi di Venezia, i d’Este di Ferrara e i granduchi di Toscana.

Dal Trecento era conosciuta anche la lacca cinese, così chiamata dal nome persiano (lāk) delle vernici locali. Lacche cosiddette del “Coromandel”, dal nome del famoso porto d’imbarco in India, erano trafficate da Indo-iranici e Arabi, e Venezia era, se non la prima, fra le prime a conoscerle.

Anche la pittura italiana rispecchiava ispirazioni cinesi. Ne sono state rintracciate nelle opere di artisti dal secondo Duecento al primo Quattrocento, di Duccio di Buoninsegna  (c.1255-1318) e Giotto (c.1267-1337), di Simone Martini (c.1284-1344), Ambrogio Lorenzetti (1285-1348 c.) e Andrea di Buonaiuto (o da Firenze, c. 1320-1377).

Dopo che le carovaniere centroasiatiche entravano in crisi con la caduta dell’impero mongolo degli Yüan in Cina fra il 1368 e il 1383 e il consolidamento degli Stati musulmani in Asia centrale, avutosi già con Tamerlano (1336-1405), continuavano ad affluire merci cinesi da Costantinopoli e dalla capitale ormai ottomana, insieme con oggetti d’artigianato e libri, dipinti cinesi influenzavano stilisticamente miniaturisti turchi e artisti italiani delle colonie commerciali del Levante. In Italia, influenze cinesi sono state ravvisate ancora in Gentile da Fabriano (1370-1427), Stefano Sassetta (c. 1392-1450), Pisanello (1395-1455) e Gozzoli (c. 1420-1497). Anche Leonardo da Vinci (1452-1519) prendeva interesse per la pittura cinese di paesaggio.

Sempre per vie indirette erano frattanto provenute in Italia altre cognizioni dalla Cina su cui si è già scritto (piante, metalli, polvere pirica ecc.). Di grossa portata storica era la conoscenza e l’uso della bussola che la Cina aveva pure inventato dopo la scoperta del potere d’orientamento della calamita fra ai secoli II-I a.C., quando le proprietà del magnetismo erano applicate alle pratiche geomantiche. Le giunche tenevano a bordo rudimentali bussole almeno dal 265 d.C. Lo strumento era perfezionato dal secolo X. Nel 1086 ne dava una descrizione letteraria Shen Gua. All’epoca erano noti ai Cinesi i principî dell’induzione, rimanenza e declinazione magnetiche. Di grande ausilio per le navigazioni d’altura, la bussola era adottata dalla nautica cinese almeno dall’epoca Song (960-1279). Nei suoi prototipi consisteva in un minuscolo ferro calamitato o in un frammento di magnetite incastonati in un pezzo di legno a forma di pesciolino. Posto a galleggiare in un bacile, la coda del pesce indicava il Nord, la bocca il Sud. Per i Cinesi, il Sud era il punto cardinale per eccellenza. Alcune bussole consistevano anche in piccole frecce magnetiche appese a un filo di seta.

Si ignora quando l’uso della bussola fosse introdotto da noi. Gaetano Ferro accenna a qualche riferimento al suo impiego in scritti della fine del 1100. Joseph Needham ne datava l’uso iniziale al 1160, cioè la seconda metà di un secolo, il XII, che vedeva l’introduzione in Europa di un’altra invenzione cinese, quella dei mulini a vento. Altri vogliono che la bussola, menzionata in Europa da Guyot de Salins nel 1190, si generalizzasse nell’uso marittimo solo dopo il 1280.        
               
In Italia, lo storico e umanista Flavio Biondo (1392-1463) accreditava gli Amalfitani d’aver perfezionato lo strumento, e sembra nascesse con lui la leggenda dell’invenzione fattane da Flavio Gioia, vissuto un secolo prima. Altri vorrebbero che Flavio Gioia si limitasse a posizionare sulla “rosa” della bussola sotto l’ago magnetico la nomenclatura delle direzioni cardinali ed intercardinali ornando l’indicazione del Nord col giglio araldico della casa d’Este.  

Comunque stessero le cose, l’uso della bussola fu di grande momento per i navigatori italiani. A Genova era fondata nel 1224 una società di commercio con le Indie e naviganti genovesi vendevano sete cinesi fino in Francia e Inghilterra per poi smerciare la stessa seta di produzione italiana.



*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà  dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.

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