mercoledì 6 febbraio 2013
Diritto al Diritto e non solo Dovere
Impresa e Management
Occhio ai nuovi "padroni" del mondo
di Massimiliano Cannata
Nel nuovo spazio globale delle reti digitali, in cui dominano Google e Facebook, senza un’adeguata evoluzione del diritto, non ci potranno essere né democrazia, né pace. Per i singoli, come per le imprese.
"Nel mondo globalizzato esistono poteri che si muovono senza essere sottoposti ad alcun controllo, che scrivono essi stessi le norme che devono essere rispettate. È il caso delle grandi imprese transnazionali.
Basta pensare a Internet, dove troviamo i nuovi padroni del mondo, come Google o Facebook, che si sottraggono al tradizionale potere degli Stati nazionali e vogliono imporre la logica economica come unica misura di tutte le cose. Ma in questo nuovo spazio si stanno manifestando forme di intervento delle persone che si oppongono alla pretesa di ridurre il mondo solo a un grande mercato, e rivendicano i loro diritti fondamentali. Si afferma, ad esempio, che la conoscenza in rete è un bene comune, come deve esserlo l’acqua e quindi risultare accessibile a tutti per garantire il diritto alla vita e alla libera costruzione della personalità. La logica dei diritti è infatti il grande strumento per una nuova distribuzione del potere politico ed economico.”
Così si esprime Stefano Rodotà, professore emerito di diritto civile dell’Università di Roma, La Sapienza, nel suo ultimo saggio, Il diritto di avere diritti (Ed. Laterza), in cui affronta, con la competenza che gli viene riconosciuta a livello internazionale, alcuni grandi temi del nostro tempo. Le conseguenze sul piano economico-giuridico della globalizzazione, il tema della disuguaglianza in un mondo sempre più piccolo, il prepotente sviluppo della tecno- scienza in rapporto all’etica e alla difesa della persona, lo sviluppo di una diversa concezione della cittadinanza, mentre si fa strada una dicotomia complessa e difficile da definire data dal rapporto uomo-macchina. Chiaro il messaggio di fondo: nel nuovo spazio globale delle reti digitali, senza un’adeguata evoluzione del diritto, non ci potrànno essere né democrazia, né pace.
Professore, sono tante le questioni sollevate dal suo lavoro. Partiamo dalla “rivoluzione digitale”, che sottende tutto l’impianto del volume. È evidente che non solo la politica, ma il business e le imprese devono sempre più misurarsi con la pervasività del fattore tecnologico. Quali sono le conseguenze sul piano della democrazia?
Troppo spesso si parla di una tecnologia che viene in soccorso di una democrazia morente. Ma della democrazia elettronica si è detto che può essere la forma nuova del populismo o la realizzazione del socialismo o l’espressione del “fascismo digitale”. Certo è che si stanno determinando nuove modalità di acquisizione del consenso, alle quali non sempre corrisponde una nuova distribuzione del potere. Ma la dimensione della democrazia elettronica non deve essere confusa con la possibilità di essere chiamati a dire un sì o un no alla fine di un processo di decisione tutto gestito da altri. Il potere dei singoli e dei gruppi deve essere esercitato in condizioni di trasparenza, consentendo l’accesso a tutte le informazioni necessarie per esercitare un controllo diffuso, per partecipare alla discussione pubblica, per progettare e proporre e per intervenire nei processi di decisione, integrando la democrazia rappresentativa con quella partecipativa.
Rimanendo sul versante dell’innovazione tecnologica: persona e macchina possono dialogare? L’idea di un “costituzionalismo globale”, che lei avanza, non rischia di sfociare nell’utopia?
La rivoluzione tecnologica non cambia soltanto il nostro rapporto con il mondo, ma pure con il nostro corpo. Ci offre opportunità nuove e straordinarie di “riparare” il corpo malato o mutilato e di migliorarne le prestazioni. Vi sono limiti all’uso della scienza? Li ritroviamo nei princìpi di eguaglianza e dignità. Tutti devono poter accedere ai benefìci offerti senza discriminazioni, nessuno può usare l’innovazione scientifica e tecnologica per disporre del corpo altrui senza il consenso dell’interessato, per trasformarlo in una macchina da controllare. Non siamo di fronte a fughe in avanti, a utopie. Dai trapianti agli impianti tecnologici nel corpo, dalle tecniche procreative a quelle della sopravvivenza, tutto questo mondo nuovo ci parla della possibilità di scelte consapevoli anche là dove prima comandavano soltanto le leggi di natura. Ma questa rappresentazione di un post-umano, fatto di tecniche che trasformano il corpo, trova i suoi criteri regolatori nei princìpi che accompagnano l’umano, dunque, nel ricorso alla guida che viene da libertà, eguaglianza, dignità. Intorno a questi princìpi comuni si sta costruendo il costituzionalismo globale.
Il profondo mutamento delle tradizionali categorie “kantiane” dello spazio e del tempo che cosa comporta sul piano dei flussi della comunicazione e, più in generale, sul piano relazionale?
Spazio e tempo hanno mutato il loro significato, questo lo sanno bene sia i politici che i manager. Grazie ai computer si vive ormai in una dimensione dove i confini perdono significato, dove il tempo può essere organizzato secondo le esigenze personali. Si può essere in luoghi diversi, in momenti diversi. Non a caso si parla di “ubiquità” in rete. Questo facilita la comunicazione diretta tra le persone, finora legata sostanzialmente al fatto di trovarsi nello stesso luogo e nello stesso momento. Il fatto che si parli di riunioni “virtuali”, di comunità “virtuali”, ci dice che lo stare e l’agire insieme offrono opportunità inedite a chi vuole far valere i propri diritti.
Esiste l’obbligo, si legge nel prologo del volume, “di fare i conti con gli altri”. La globalizzazione determina anche un’idea diversa del diritto e della cittadinanza. Possiamo spiegare in che senso?
La cittadinanza è stata storicamente concepita come uno strumento di separazione. La persona aveva i diritti legati al suo appartenere a un determinato paese, e li perdeva appena ne attraversava i confini. Oggi parliamo di “diritti di cittadinanza”, intesi come il patrimonio di diritti che devono accompagnare la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova. Salute e istruzione, diritti del lavoro, rispetto dell’eguaglianza e della dignità ci appartengono appunto in quanto persone, non possono essere negati a nessuno. Partendo da questa premessa, comincia appunto a delinearsi quella che potremmo chiamare una “cittadinanza globale”, che mostra appunto come la via della globalizzazione non sia solo quella del mercato, ma necessariamente anche quella dei diritti.
Parlare di diritti significa parlare di democrazia. L’Occidente che sta perdendo la “vecchia” egemonia di matrice colonialista, può avere un ruolo nella progressiva spinta dei popoli oppressi da regimi, che rivendicano un diverso posto nel mondo?
Le grandi rivolte che attraversano il mondo e che scardinano regimi e logiche autoritarie, dalle primavere arabe agli scioperi nelle fabbriche cinesi, hanno tutte la loro origine nella rivendicazione di diritti. È una buona cosa che la richiesta di libertà e diritti esca fuori dal suo perimetro storico, e non sia soltanto identificata con la “ragione occidentale” e con sue pretese egemoniche. Oggi, in tutto il mondo, è in atto una continua, quotidiana dichiarazione
dei diritti, che viene da milioni di persone, che dà evidenza alla realtà della vita materiale. L’Occidente, se vogliamo continuare a usare questo riferimento, non deve soltanto sostenere le richieste di diritti da qualsiasi parte vengano, ma deve riflettere sulla sua stessa tradizione, arricchendola con i contributi che le nuove “rivoluzioni dei diritti” incessantemente producono.
Per decenni i diritti sono stati classificati in modo schematico, come la categorie di soggetti che ne godevano. Oggi si parla di “pluralità dei soggetti che si parlano sulle reti planetarie”. Quali sono i prossimi passi da compiere per la civiltà del diritto?
Le classificazioni di diverse categorie o “generazioni” dei diritti sono storicamente servite non solo a mostrarne la stratificazione storica, la successione nel tempo di diritti politici, civili, sociali, legati all’ambiente e all’innovazione scientifica e tecnologica. Sono state adoperate anche per sostenere che alcune di queste classificazioni, in primo luogo quella relativa ai diritti sociali, non identificano veri e propri diritti che, quindi, dovrebbero godere di minori garanzie. È già stato fatto il passo nella direzione giusta quando si è affermata la “indivisibilità” dei diritti, com’è detto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ora si tratta di consolidare questo risultato, capovolgendo anche l’impostazione tradizionale perché, ad esempio, diritti considerati sociali come la salute o l’istruzione, devono essere considerati sempre più “fondamentali” proprio per garantire la libera costruzione della personalità.
La legge del mercato ha spesso prevaricato il diritto. Quale deve essere il giusto rapporto tra queste due sfere da cui dipendono gli equilibri non solo economici, ma anche la salute della democrazia nell’era planetaria?
Con intensità sempre maggiore si individuano beni che devono essere sottratti alla logica economica, che non possono essere oggetto di proprietà. Documenti internazionali affermano che il corpo e le sue parti non possono costituire oggetto di profitto. In Italia lo stesso principio è stato affermato con il voto nel referendum contro la privatizzazione dell’acqua. E questo vale per l’accesso ai beni indispensabili per garantire i diritti fondamentali, che non devono necessariamente passare attraverso la mediazione del mercato. Se avrò tanta salute quanta ne posso comprare nel mercato, si avrà una regressione verso la “cittadinanza censitaria”, con una discriminazione dei cittadini in base al loro reddito proprio sul terreno dei diritti fondamentali.
Eguaglianza e libertà, società e individuo, rimangono questi i termini/spartiacque attorno a cui possono emergere, dopo il declino delle ideologie, le differenze essenziali tra destra e sinistra?
Molte volte, in questi anni, si è affermato che non ha più senso la distinzione tra destra e sinistra. Ma la crescita delle diseguaglianze e l’abbandono del principio di solidarietà ci dicono che quella discriminante è ancora forte. Quale che sia il paese al quale si guarda, sono proprio l’eguaglianza e la solidarietà i riferimenti intorno ai quali continuano a caratterizzarsi schieramenti politici che possono ancora essere definiti di sinistra.
Non le pare che proprio sul piano dell’architettura costituzionale, e quindi anche sulla definizione dei diritti, il vecchio Continente sia rimasto indietro rispetto alle esigenze della società multietnica e rispetto ai diritti delle minoranze?
Nel 1999 il Consiglio europeo incaricò una “convenzione” di scrivere il testo di una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che venne approvata a Nizza alla fine del 2000 e che, dal 2009, ha lo stesso valore giuridico dei trattati. La ragione di questa scelta, si disse esplicitamente, era che solo una carta dei diritti avrebbe finalmente dato all’Unione una piena legittimità. La progettazione istituzionale, dunque, c’è stata, e anche con modalità notevolmente significative. È mancata la capacità politica di dare attuazione alla Carta. Un grave errore. Perché solo attraverso il “valore aggiunto” rappresentato da una più forte garanzia dei diritti proveniente dall’Europa, è possibile recuperare una fiducia che si perde quando a Bruxelles si guarda solo come a un luogo dal quale arrivano continue richieste di sacrifici.
Quali sono i casi più eclatanti di diritti violati nel mondo di oggi e come si può porre rimedio all’escalation della violenza e della sopraffazione che investe anche il “recinto” più sacro degli affetti familiari?
L’elenco sarebbe lunghissimo, ed è difficile ritenere che vi siano violenze gravi o meno gravi, poiché chiunque subisce una violenza, sia pur minima, è negato nella sua umanità. Certo, dobbiamo ricordare la Shoah, violenza davvero unica. E la guerra, violenza indiscriminata. La violenza si combatte con l’educazione, con la conoscenza degli altri in spazi di confronto, dunque, in primo luogo, nella scuola pubblica. Solo uscendo da qualsiasi ghetto – culturale o religioso, localistico o del privilegio – si impara a riconoscere nell’altro il proprio simile, ad accoglierlo. Se non si va in questa direzione, se paura e violenza s’impadroniscono della società, è vano pensare che vi siano rifugi “da un mondo senza cuore”, come la famiglia, che partecipa del clima nel quale vive.
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