domenica 16 febbraio 2014

ORSI & TORI
 di Paolo Panerai  

Matteo Charles De Gaulle? Riuscirà il sindaco Renzi a far nascere la nuova Repubblica italiana come fece il generale francese con la quinta Republique? Il punto di partenza è diverso perché De Gaulle dovette ritirarsi a Colombey-les-deux-églises, nel 1953, scontento di come andavano le vicende politiche e certo in quel periodo non aiutato da Jacques Chaban-Delmas, Michel Debré e gli altri cosiddetti colonnelli del gollismo. Ma i fallimenti della guerra in Indocina e Algeria travolsero la quarta Republique con la crisi costituzionale del 13 maggio 1958. Così De Gaulle venne richiamato dal suo buen retiro e il 1º giugno 1958 venne nominato primo ministro con poteri enormi, corrispondenti a quelli della prima Costituente. Il generale utilizzò questi poteri per riformare la Costituzione nel senso di eliminare la dittatura parlamentare, vale a dire quell'assetto istituzionale che offriva potere di veto alle minoranze in un Parlamento molto

frazionato fino appunto a bloccare l'attività di governo. Dal 1959 al 1969, cioè per dieci anni, De Gaulle fu presidente della Republique, affrontando come prima cosa la crisi economica anche con l'introduzione del nuovo franco.

Renzi diventa primo ministro senza ancora avere provato la delusione dell'esilio volontario a Rignano sull'Arno, ma con analoghe attese da parte degli italiani rispetto a quelle dei francesi dal ritorno di De Gaulle. I tempi sono diversi, le storie sono diverse, ma nella sostanza anche l'Italia ha un sostanziale problema di ingovernabilità del Paese non tanto per il Parlamento, che pure con i due rami, Camera e Senato, che fanno esattamente le stesse cose è assolutamente di intralcio alla speditezza dell'azione di governo e quindi va riformato, quanto soprattutto da una burocrazia che è a tutti gli effetti casta di potere assoluto nel Paese.

Il prossimo primo ministro Renzi sa bene che anche per una scarsa conoscenza della macchina burocratica rischia molto; sa che la minoranza del Pd lo ha spinto a buttare fuori da Palazzo Chigi l'amico (o ex amico) Enrico Letta nella speranza di poter riagguantare le leve del potere del partito; sa benissimo che tutti lo aspettano alla prova con il fucile puntato e che dovrà percorrere una strada piena di trappole, compresa la possibilità che essere oggi senza macchia diventi un ricordo del passato (basterebbe che per qualche atto venisse deferito alla Corte dei Conti o peggio che qualche magistrato politicizzato dalla parte delle minoranze del Pd lo avvisi di un qualsiasi banale reato). Sa bene tutto questo, ma lui e i suoi più vicini collaboratori, come il bravissimo ex vicesindaco di Firenze e ora autorevole deputato, Dario Nardella, hanno fatto questo elementare ragionamento: se fosse continuata la vita stentata del governo Letta a loro giudizio nel giro di cinque o sei mesi sarebbe stato inevitabile andare alle elezioni e in quel caso il Pd, dominus comunque del governo, sarebbe andato diritto verso la sconfitta. Quindi, tanto vale metterci la faccia e tutte le energie anche a costo di condurre un'operazione un po' brutale e generare ancora una volta

nella storia della Repubblica una crisi fuori dal Parlamento come in effetti è avvenuto con la decisione di tutto nella direzione del Pd e le dimissioni di Letta direttamente al presidente Giorgio Napolitano senza neppure un ritorno alle Camere.

L'Italia ha estremamente bisogno di quanto Renzi si propone di fare con una serie di riforme e con un forte, fortissimo, rilancio dell'economia: i presidenti degli Stati Uniti riescono a fare il secondo mandato solo se quando ci sono le elezioni l'andamento dell'economia è positivo. Ma quante probabilità ha Renzi con i suoi giovani collaboratori di riuscire nell'obiettivo di rivoltare l'Italia come un calzino?

Secondo alcuni sono più i rischi di insuccesso che le probabilità di successo. Questo giornale non la pensa così, conoscendo quanto coriaceo e rapido è Renzi. A trasformare la sua avventura in un insuccesso possono essere solo trappoloni molto bene organizzati o errori nella scelta dei ministri chiave, in primo luogo quello dell'Economia, che accorpando Tesoro, Finanze e Bilancio vale quasi più della presidenza del Consiglio. Lo ha dimostrato Giulio Tremonti che di fatto ha dato a lungo scacco matto a un presidente del Consiglio pur molto attrezzato e di per sé potente come Silvio Berlusconi. Se per caso Renzi decidesse di scegliere per questo ministero un uomo capace ma debole commetterebbe l'errore di Letta con la scelta del bravo ma non duro Fabrizio Saccomanni. Quindi la scelta è fra due fuochi: un uomo forte che possa imporsi alla direzione generale del Tesoro e alla Ragioneria dello Stato o un uomo meno forte, con il rischio che sia travolto appunto dalla burocrazia. La scelta deve avvenire al centro di questi due estremi con un uomo o una donna sufficientemente forte ma che sia in perfetta sintonia con il presidente del Consiglio e che abbia nei suoi confronti piena lealtà. Una scelta non facile. Quando Renzi proporrà il nome del ministro dell'Economia al presidente Napolitano si capirà se la scelta almeno di partenza è stata giusta, non dovendo fra l'altro il presidente del Consiglio tralasciare che il più potente ministro del suo governo sia anche gradito e in sintonia con il presidente della Banca centrale europea (Bce), Mario Draghi. A questo giornale risulta che Renzi abbia già avuto un lungo colloquio con Draghi, ma se anche viene soddisfatta la necessità di sintonia con il capo della Bce (come in effetti c'era da parte di Saccomanni) dovranno comunque coesistere le altre qualità di forza (che è mancata all'ex direttore generale di Bankitalia) e lealtà.

Già da pochi minuti dopo la conclusione della direzione del Pd, nel pomeriggio di giovedì 13, Renzi si è preoccupato di capire come organizzarsi a Palazzo Chigi e ha fatto chiedere consiglio a chi aveva a lungo, da dirigente, vissuto in quel palazzo. Il consiglio spassionato è stato ad avviso di questo giornale corretto: presso la presidenza del Consiglio deve essere trasferita la parte più importante della Ragioneria generale dello Stato. Non è dato sapere se Renzi vorrà o potrà seguire questo suggerimento, ma certo con i bottoni della Ragioneria presso Palazzo Chigi, Renzi farebbe un grande passo avanti nel progetto di disinnescare il potere autonomo della burocrazia e in particolare di chi detiene la cassa.

Con una mossa come questa potrebbe attuare il progetto di Franco Bassanini e Marcello Messori che avevano preparato per Letta e Saccomanni, come sanno bene i lettori di questo giornale, una procedura perché in poche settimane fosse possibile immettere nel sistema ben 77 miliardi cash attraverso il pagamento, con lo sconto fatto dalle banche, dei crediti correnti delle aziende italiane. Bastava, e basta, un decreto del governo che riconosce e garantisce quei crediti che sono già iscritti fra i debiti dello Stato e che con la formula Bassanini-Messori non costringerebbero il governo, per pagarli, a indebitarsi ulteriormente. Semplicemente perché i soldi ce li metterebbero le banche, ben contente di scontare quei crediti alle aziende riconosciuti e garantiti dalla Stato, quindi senza assorbimento di capitale nel rapporto che le regole bancarie impongono fra il capitale proprio e la quantità di credito erogabile in base a esso. Infatti la garanzia dello Stato, almeno tuttora, fa considerare il pagamento di quel debito sicuro, quindi senza assorbimento di capitale.

La possibilità di immettere ben 77 miliardi nel sistema economico italiano (si tratta di un po' più di quattro punti di pil) è al primo posto nel progetto che gli economisti di L'Italia c'è (Andrea Monorchio, ex ragioniere generale dello stato, Guido Salerno, ex dirigente della commissione bilancio del Senato, e Paolo Savona, ex braccio destro di Guido Carli ed ex ministro) hanno preparato per offrire a Renzi un punto di riferimento sulle cose da fare subito per superare stabilmente la crisi. Sulle stesse tematiche di taglio drastico del debito (un obiettivo sicuro di Renzi), di taglio della pressione fiscale (grazie ai minori tassi di interessi da pagare sul debito) e sulla ricapitalizzazione delle piccole e medie aziende si sono da tempo, anche su sollecitazione di questo giornale, esercitati altri economisti, come Roberto Poli, ex presidente dell'Eni, Alberto Quadrio Curzio, professore alla Cattolica, Pellegrino Capaldo, professore di ragioneria e consulente raffinato di grandi gruppi. Loro e anche altri sono pronti a entrare nel comitato de L'Italia c'è per fungere da libero pensatoio e consulenti interpellabili in qualsiasi momento dal governo, così come è il ruolo dei Saggi dell'economia in Germania.

I pessimisti pensano che comunque Renzi non ne avrà bisogno perché non durerà a lungo. Il ragionamento di questi sconta la considerazione che il prossimo presidente del Consiglio è uomo molto intelligente e veloce e che quindi, in realtà, avrebbe deciso di salire a Palazzo Chigi con il proposito di andare presto alle elezioni. In che modo? Preparando un programma di riforme e di intereventi che tutti coloro che hanno esperienza e buon senso predicano invano da anni. Insomma un programma che ha il suo nucleo negli obiettivi e nelle metodologie per raggiungerli, indicati dal comitato di L'Italia c'è. Un programma di largo consenso tra gli elettori.

Ma appunto Renzi è ben consapevole delle difficoltà che potrà avere ad attuarlo e che quindi, in realtà, la sua carta di riserva sarebbe quella stessa che giocò De Gaulle ritirandosi a Colombey-les-deux-églises. Al primo scherzo del Parlamento o della burocrazia, Renzi non metterebbe tempo in mezzo e dichiarerebbe coram populi che con questa struttura del Paese non si può governare. Chiederebbe quindi elezioni immediate con la quasi certezza di vincerle sulla base del progetto che non avrebbe potuto attuare anche per l'esistenza di due rami identici del Parlamento, una burocrazia che è potere autonomo, la mancanza di potere effettivo dell'esecutivo. Esattamente le problematiche di allora della Francia di De Gaulle, anche se in forma diversa. Per tornare trionfante al potere, De Gaulle dovette aspettare quasi cinque anni che si compisse la tragedia della Francia, mentre Renzi nel caso potrà appunto chiedere elezioni immediate, al primo intoppo, senza lasciarsi logorare. E se effettivamente ottenesse un consenso popolare ampio, cioè fatte le debite proporzioni simile a quello delle primarie, in primo luogo rispetterebbe la sua stessa indicazione che per poter governare ci vuole l'investitura del popolo, ma soprattutto tornerebbe a governare con una forza politica ben maggiore, tale comunque, in caso di maggioranza assoluta, da poter varare le riforme che non fosse riuscito a varare in questo suo primo mandato da capo del governo.

C'è chi chiama questa manovra la vera carta di riserva che Renzi ha deciso di tenersi in tasca di fronte al grosso rischio che corre, avendo peraltro la possibilità di fare una prima esperienza governativa che gli potrà tornare molto utile al secondo giro.

Sia come sia, speculazioni o meno sulla furbizia di Renzi, certamente se anche lui, nono presidente del Consiglio dal 1994, anno indicato come inizio della Seconda repubblica, non riuscisse a cambiare il Paese con i poteri attuali, la maggioranza degli italiani molto probabilmente lo voterebbe in larga maggioranza. All'orizzonte c'è forse un'alternativa? (riproduzione riservata)

Paolo Panerai

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