sabato 15 febbraio 2014

DI PAOLO BORZATTA
IL FUTURO DELL'ITALIA IN CINA

di Paolo Borzatta
Twitter@BorzattaP

Dal blog Specchio Cinese

Milano, 12 feb. - Da quando è iniziato l’affare Bo Xilai – tutti noi osservatori della Cina - siamo rimasti focalizzati sulla dirigenza cinese. Sono stati mesi estremamente densi: da un probabile colpo di stato alla transizione morbida alla nuova “forte” leadership di Xi Jinping. L’insediamento della nuova leadership ci ha inoltre spinto a dedicare le nostre energie a tentare di indovinare dai primi segnali forti e deboli quale potrebbe essere l’evoluzione della leadership stessa e soprattutto del Paese.

L’editoriale di The Economist del 25 di gennaio, “China loses its allure”, ci ha però richiamato prepotentemente a interrogarci sulle nostre relazioni con un Paese che sta cambiando rapidissimamente e in cui – soprattutto – sta cambiando il modello economico che l’ha portato ai grandi attuali successi. Il modello cinese sta infatti rapidamente passando da una forte apertura ai capitali stranieri, che hanno giocato – con la loro enorme quantità – il ruolo di “primo stadio” del vettore cinese facendolo definitivamente decollare, a una maggiore attenzione allo sviluppo del mercato interno (che sarà il “secondo stadio”) insieme al rafforzamento competitivo delle aziende cinesi oltre a una maggiore attenzione ai rischi di tensioni sociali. Il rafforzamento competitivo delle aziende cinesi comporterà una progressiva riduzione delle protezioni delle aziende statali cinesi e un maggior livellamento delle regole competitive per facilitare lo sviluppo delle aziende private cinesi di piccole e medie dimensioni.

Oltre ad aumentare la competitività delle aziende locali, altri fenomeni concorrono a rendere la vita delle aziende straniere (ma anche cinesi) più difficile. I costi in generale sono aumentati e non sono più quelli degli anni d’oro, i costi e la difficoltà a trovare manager di valore (perché la domanda è elevatissima) sono pure amentati. Inoltre i consumatori, grazie anche all’effetto livellatore di internet (che ha ridotto l’asimmetria informativa del grande pubblico), alla molto migliorata qualità dei prodotti locali e all’emergere di un “orgoglio per le marche cinesi”, non sono più disponibili a pagare enormi premium price pur di comperare marche straniere.

Un altro importante fenomeno che ha reso più difficile operare in Cina è la progressiva crescita dei mercati interni.
  All’inizio della “corsa all’oro” in Cina, il mercato che contava era addensato attorno ai tre grandi poli (Pechino, Shanghai e Canton) in rapida modernizzazione e crescita. Oggi vi sono centinaia di città sparse nel grande territorio cinese, anche all’interno, che stanno crescendo e che rappresentano dei mercati locali fondamentali. Per operare su tutto questo mercato occorre “combattere palmo a palmo” costruendo strutture – ovviamente costose - che possano coprire tutto il territorio; si noti che non è quasi mai possibile limitarsi a zone circoscritte perché essendo la competizione fortissima si rischia di lasciare spazio per rafforzarsi a concorrenti locali che poi utilizzeranno quel rafforzamento per rendere la vita quasi impossibile a chi non ha voluto espandersi.

Va anche aggiunto che se in passato le autorità cinesi, centrali o locali, chiudevano più di un occhio sulle infrazioni delle aziende straniere pur di garantirsi i loro investimenti, oggi sono forse passate all’estremo opposto proprio probabilmente per facilitare le aziende locali.

Da ultimo va detto che anche la situazione finanziaria ed economica è peggiorata. La Cina continua sì ad essere un mercato che cresce, ma a tassi non più così alti come in passato. Inoltre la situazione debitoria delle aziende locali (12,1 trilioni di USD da confrontare con 12,9 trilioni di USD delle aziende statunitensi che sono le più indebitate al mondo – fonte Wall Street Journal del 11 febbraio 2014), drogate dal credito facile concesso in passato anche per aiutarle a superare la crisi finanziaria dell’Occidente, è divenuta molto pesante e quindi il costo del danaro per le aziende cinesi è molto aumentato spingendole quindi a una maggiore aggressività su tutti i fronti.

Questo che cosa significa per le aziende del nostro Paese?

Quando la Cina si è aperta, l’Italia godeva di alcuni vantaggi di tutto rispetto. Era stato il secondo Paese occidentale a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese (un anno dopo la Francia e molti anni prima degli Stati Uniti), aveva tenuto aperto importanti canali commerciali (tramite la Montedison) anche durante il maoismo, la Banca Commerciale Italiana non aveva mai formalmente chiuso, all’Italia non erano addebitati comportamenti colonialisti così nefandi come quelli di altre potenze coloniali (inglesi in testa) e infine – nell’immaginario collettivo cinese – l’Italia con il suo Impero Romano era ed è accreditata come l’unica altra grande civiltà oltre a quella cinese apparsa nella storia dell’uomo.

Come sappiamo siamo stati bravissimi a disperdere, in questi tre decenni dall’apertura della Cina, quasi tutto questo nostro capitale. Ha giocato negativamente un Governo che – indipendentemente dal colore politico della maggioranza di turno – non ha mai capito la Cina e non ha mai messo a punto una strategia di lungo termine verso quel Paese; se a volte ha provato ad abborracciare una parvenza di strategia (spesso pure sbagliata), l’ha poi immediatamente disattesa al primo frequente cambio di Governo. Molto altro si potrebbe aggiungere sulle mancanze e gli errori del Governo e della maggioranza delle Istituzioni italiane in relazione alla Cina, ma per carità di patria ci fermiamo qui.

Purtroppo però anche le aziende, private e pubbliche, non hanno saputo cogliere (eccezioni a parte), nei tre decenni della Grande Corsa all’Oro Cinese, le enormi opportunità che si stavano aprendo. La causa di questa povera performance vanno ricercate prima di tutto nella dimensione mediamente molto piccola della aziende italiane e quindi nella loro oggettiva maggiore difficoltà ad investire in questo mercato così diverso e così complesso. Ha inoltre giocato negativamente un atteggiamento abbastanza peculiare della maggioranza delle aziende italiane: l’abitudine culturale a progettare strategie “cost based” ovvero cercando di minimizzare i costi a differenza della progettazione strategica “revenue based” tipica delle aziende, grandi e piccole, delle grandi economie occidentali. Le strategie “revenue based” guardano a quanto mercato si potrebbe acquisire sulla base delle proprie competenze e investono sulla fiducia in se stessi a raggiungere quei risultati. E’ un po’ come se dovendo andare alle Olimpiadi un atleta, invece di fare tutti gli sforzi per conquistare un oro olimpico perché convinto delle proprie capacità, si limitasse a competere tanto per “partecipare” cercando di fare meno sforzi possibili e possibilmente di non farsi male.

Un’altra causa negativa della performance delle aziende italiane va infine ricercata nella mentalità provinciale di molti nostri imprenditori e manager. La Cina è molto diversa, ha una cultura molto differente e richiede un atto di umiltà per capirla e affrontarla. Spesso invece i nostri vertici aziendali hanno preferito classificare i comportamenti cinesi come quelli di un popolo arretrato che avrebbe dovuto “imparare” da noi. In altri casi è invece intervenuta la “sindrome della volpe e dell’uva”: viste le difficoltà (e a volte gli insuccessi) si è preferito dire che non valeva la pena tentare di entrare nel mercato cinese perché non ancora maturo!

Oggi, come abbiamo detto, le porte cominciano “a chiudersi”: vuoi perché il sistema renderà difficile la vita alle aziende straniere, vuoi perché i concorrenti – cinesi e stranieri - hanno oramai occupato posizioni importanti e difficili da scalzare.

Noi, con le nostre aziende, come siamo messi?

In alcuni settori abbiamo raggiunto interessanti risultati. Per quanto riguarda le esportazioni siamo in ottima posizione nella moda e accessori, dove siamo in seconda posizione mondiale, siamo decimi nella meccanica e componenti, abbiamo buona presenza, tredicesimi, nei veicoli e mezzi di trasporto. Più deboli negli altri settori.

Spesso davanti a noi ci sono la Germania (33% dell’export europeo verso la Cina contro il 5% dell’Italia) e la Francia e ovviamente Stati Uniti e Giappone.

A questo quadro va però aggiunto la situazione degli investimenti diretti delle nostre aziende che sono decisamente inferiori a quelli dei nostri concorrenti. Tra gli europei la Germania la fa da padrone in moltissimi importanti settori (si pensi solo all’automobile), ma gli Stati Uniti e il Giappone hanno pure investito massicciamente.

Anche sul fronte delle istituzioni, della ricerca, dell’università, della salute, pur in assenza di dati complessivi certi, la sensazione degli osservatori professionali è che le collaborazioni e le partnership sino-italiane, in questi importanti settori per la nostra competitività Paese, siano più deboli di quelle dei nostri diretti concorrenti.

In sintesi. Se misuriamo la nostra posizione oggi otteniamo un risultato positivo, ma più debole e in qualche caso molto più debole di quello dei concorrenti. Se però misurassimo il “costo di opportunità”, ovvero il mancato “margine” di quello che abbiamo perso perché non siamo stati capaci – come Paese e come singole aziende e istituzioni – di sfruttare il potenziale che avevamo, temo che otterremmo una cifra estremamente negativa. Personalmente seguo direttamente le relazioni Italia-Cina dal lontano 1985, ho seguito professionalmente centinaia di aziende italiane (ma anche francesi e statunitensi) che intendevano entrare o svilupparsi in quel mercato, ho vissuto in quel paese e ho partecipato a innumerevoli “missioni Paese” e posso testimoniare che le opportunità – proprio in settori per noi importanti come i veicoli, la meccanica, l’alimentare, la cultura e l’istruzione, ecc. - che abbiamo avuto sono state enormi. Purtroppo abbondantemente sprecate.

Quale è quindi il futuro dell’Italia in Cina?

Il contesto, come abbiamo visto, chiederà sempre di più alle aziende straniere di essere sempre più competitive. The Economist riassume benissimo dicendo: “China is still a rich prize. Firms that can boost productivity, improve governance and respond to local tastes can still prosper. But the golden years are over.”

In questo contesto, se non cambia qualcosa a livello Paese e soprattutto nella mentalità dei vertici delle aziende (e delle istituzioni) italiane, temo che il nostro futuro in Cina sarà – nelle migliori delle ipotesi – decoroso.

La Cina sarà però sempre di più il mercato più grande del pianeta e sempre di più le innovazioni e le idee nuove arriveranno da là.

Ci basta, come Italiani, avere – nella migliore delle ipotesi – una presenza decorosa?


POST SCRIPTUM. Queste cose le ripeto da quasi tre decenni, la mia frustrazione per non essere stato capace di diffonderle più efficacemente è alta.

SECONDO POST SCRIPTUM. Il mio prossimo editoriale su queste colonne sarà (presuntuosamente) su che cosa potrebbe ancora fare l’Italia ovvero “Una strategia per l’Italia in Cina”.

12 febbraio 2014

© Riproduzione riservata

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