Mercoledì, 22 Gennaio 2014 - Ore 18:11
Il giorno più brutto per il nuovo presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, è stato quello del suo compleanno, quando nel giugno scorso la Nazionale cinese di calcio è stata sconfitta 5 a 1 dalla Thailandia. Quasi furioso per questa cocente sconfitta, lui che non nasconde la passione per il calcio giocato, tanto da vedere una partita più o meno tutti i giorni, Xi ha deciso personalmente il licenziamento immediato dell'allenatore spagnolo, José Antonio Camacho che aveva un contratto da 2,8 milioni di euro all'anno e ha fatto un vero repulisti della Federazione calcio, la Chinese Football Association (Cfa), nominando presidente il viceministro dello sport e campione olimpionico di ping-pong, Cai Zhenhua.
Come in altri settori, anche nel calcio la Cina ha un problema di corruzione. Dopo il 5 a 1 della Thailandia alcuni giornali avevano parlato di partita venduta a tavolino, essendo molti calciatori scommettitori accaniti. Il repulisti nel mondo del calcio del presidente Xi, che non esclude di diventare presidente onorario della Cfa avendo posto l'obiettivo che ai Campionati del mondo del 2018 la Nazionale cinese arrivi almeno agli ottavi di finale, è la sintesi della situazione nella quale si trova in questo momento il Paese più grande del mondo. Come fra Scilla e Cariddi, il nuovo potere si trova da un lato a dover combattere la corruzione (sono finiti in carcere alcune migliaia di ex potenti e super ricchi) e dall'altro a voler alzare sempre più l'asticella degli obiettivi da raggiungere.
Uno schema nel quale, a cominciare dal calcio, l'Italia può, se vorrà, giocare un ruolo molto importante. I settori economici dove il Belpaese può raccogliere risultati significativi non sono soltanto quelli del fashion e del design, cioè dei prodotti che stereotipatamente vanno sotto la definizione di Made in Italy. Ci sono settori meno glamour che tuttavia vedono le aziende italiane in posizione di vantaggio rispetto ai tedeschi o ai francesi. E non soltanto perché fra Italia e Cina è stato firmato un protocollo di intesa proprio in questi settori grazie all'impostazione data a suo tempo dai vari viaggi dell'ex ministro Corrado Passera e dal nuovo ambasciatore Alberto Bradanini: l'urbanizzazione sostenibile, le tecnologie del verde e dell'energia, la sanità e (paradossalmente) i servizi pubblici, lo sviluppo agricolo (soprattutto la sua meccanizzazione).
Lo schema è lo stesso che adottò 36 anni fa il ministro del Commercio estero, l'indimenticabile Rinaldo Ossola, quando bruciò sul tempo tutti gli altri Paesi del mondo occidentale e in occasione di uno storico incontro con Deng Xiaoping a Pechino, fece concedere dal sistema Italia un prestito equivalente oggi a 1,5 miliardi di euro perché i cinesi potessero comprare servizi e prodotti dall'Italia.
I tempi sono talmente cambiati che oggi quel gesto appare un paradosso. La Cina ha molte necessità ma non certo ha bisogno di capitali tenuto conto dell'enorme surplus della bilancia dei pagamenti. Quindi è in condizione di scegliere il meglio che il mercato offre e per fortuna si è convinta, come si convinse nel 1978 grazie anche a quel finanziamento, che alcuni prodotti e servizi possono essere forniti dall'eccellenza di varie aziende italiane.
Un caso emblematico è quello di Hera, la municipalizzata che copre da Trieste all'Emilia e che ha costituito una brillante joint venture con capitali cinesi per il trattamento, finalizzato alla produzione di energia, di rifiuti tossici, un settore che in Cina presenta aspetti inquietanti. L'esempio è significativo per più motivi, non ultimo perché dimostra la potenzialità delle aziende municipalizzate se vengono gestite bene. L'attività di trattamento dei rifiuti tossici garantisce margini molto elevati che si rifletteranno anche su Hera, quotata con successo in borsa. E quindi il caso indica anche quale sia la potenzialità delle municipalizzate nella direzione del necessario programma di privatizzazione, cioè di vendita delle stesse da parte degli enti locali per ridurre la quota di oltre 400 miliardi di euro degli enti locali che concorre a comporre gli oltre 2 mila miliardi di debito pubblico contabilizzato da Eurostat.
Ma il caso è significativo anche per un altro motivo, che indica esso stesso la strada da seguire. A gestire la joint venture di Hera in Cina è un giovane cinese, Jie Shen, figlio di cinesi emigrati a Roma dove il padre ha sviluppato un'attività alberghiera. Jie si è laureato prima alla Luiss e ha preso la laurea magistrale alla Bocconi, cioè nelle due migliori università italiane. Ovviamente perfettamente bilingue e con la conoscenza della mentalità cinese, egli è un manager perfetto per poter sviluppare la presenza italiana in Cina. Poiché di cinesi in Italia di seconda generazione ce ne sono molti e molti di essi, con non pochi sacrifici dei genitori, hanno studiato e bene, sarebbe il caso che venissero classificati e individuati dalle aziende per poter essere impiegati nel programma preparato dall'ambasciatore Bradanini e sostenuto con la sua visita a Pechino dal ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, per il Forum Sino-Italiano.
Oltre ai settori inclusi nel progetto dell'ambasciata e del governo italiano, che troverà un momento di maggiore concretizzazione in occasione del viaggio programmato dal presidente del Consiglio Enrico Letta per il prossimo aprile, ce n'è uno che imprescindibilmente deve essere affrontato di petto. Ed è quello del turismo cinese verso l'Italia. L'Italia non può limitarsi a concedere con efficienza visti più di ogni altro Paese europeo, sino all'ottobre scorso con la collaborazione della Fondazione Italia Cina, ora altrettanto efficacemente con la concessione alla società indiana che già preparava la documentazione per i visti singoli e non dei gruppi organizzati dai tour operator. In primo luogo occorre che Alitalia o gli Aeroporti di Roma e di Milano organizzino una forte crescita dei voli diretti dalla Cina e dall'Italia. Infatti, con i visti italiani la maggior parte dei turisti entra da Parigi, da Francoforte o da Amsterdam, che essendo nell'area Schengen usufruiscono del lavoro dei consolati italiani in Cina.
Il problema è anche più grave perché per l'anno prossimo, in occasione dell'Expo universale di Milano, è stato posto e concordato con le autorità cinesi l'obiettivo di un milione di turisti dalla Cina. Vuole tener presente il governo che non basta porre degli obiettivi corretti e presentare l'Expo come la migliore occasione di rilancio dell'economia italiana? Occorre che, se c'è, il ministro del Turismo (che lo è anche dei Beni culturali) batta un colpo e si faccia promotore, controllore e garante di un programma di preparazione all'accoglienza di così tanti cinesi, che da soli possono far salire significativamente il prodotto interno lordo italiano: c'è qualcuno che ha avviato un progetto di formazione per operatori turistici che sappiano come trattare cittadini certo particolari per abitudini e cultura come sono i cinesi? C'è qualcuno che si sia preoccupato di incrementare il numero degli interpreti? E per una situazione di emergenza come quella che si sta delineando, non sarebbe il caso di chiedere la collaborazione della comunità cinese in Italia?
Ma a evidenziare in maniera drammatica l'impreparazione dell'Italia a cogliere un'occasione c'è un buco ancora più scandaloso: non una scritta una, né a Milano, né a Roma, né a Firenze, né a Venezia, ovvero le città frequentatissime dai cinesi, mostra loro le indicazioni e i servizi essenziali. Se si transita nella Metropolitana di Parigi, sugli autobus, sui taxi, ma nelle stesse vie non solo principali, le scritte in cinese, oltre che in giapponese, sono numerosissime. E perfino a Pechino ormai tutte le scritte delle metropolitane sono in doppio carattere, occidentale e in ideogrammi.
Una situazione intollerabile che spinge da questo numero i media di Class Editori a una vera campagna di denuncia di un tale scandalo. Insieme alla denuncia Class Editori, che è la casa editrice più impegnata a sviluppare i rapporti di amicizia, culturali ed economici con la Cina, sta cercando uno sponsor che abbia una visione strategica per un'iniziativa privata di segnaletica in lingua cinese a cominciare da Milano. Per fortuna all'orizzonte si sta delineando un gruppo sensibile, anche per posizione istituzionale, a una simile operazione. Che ha ovviamente anche lo scopo di sollecitare oltre agli enti pubblici tutti i privati interessati allo sviluppo del turismo ad attivarsi per accogliere al meglio questo primo fiume di un milione di cinesi desiderosi di scoprire l'Italia e potenziali promotori dell'Italia, se li avrà accolti bene, di altri milioni di loro connazionali.
Insomma, si vuole o non si vuole capire che il turismo, e in particolare quello cinese, può essere la salvezza dell'Italia?
«Insieme al memorandum d'intesa che il ministro Zanonato ha firmato con il suo omologo cinese per l'intervento nei quattro settori», spiega l'ambasciatore Bradanini, «ci è stato chiesto anche di firmare un accordo tecnologico. Volentieri abbiamo accolto la richiesta perché è un segno dell'importanza che il governo di Pechino attribuisce alla sapienza tecnologica italiana».
Ma la fase di lotta alla corruzione che il presidente Xi ha avviato con tanta energia non rischia di deconcentrare la Cina dai suoi programmi di sviluppo? A Pechino non sono pochi i cinesi che pensano di trasferirsi all'estero, avendo magari qualche peccato sulla coscienza. All'ambasciata italiana si minimizza. È vero, dicono, sono stati effettuati molti arresti ma se si tratta di politici il loro carcere è assai diverso da quello comune. A nord di Pechino ce n'è uno dove i politici arrestati possono vivere una vita quasi normale, ma non possono operare, quindi non possono alimentare la corruzione. Non vi è dubbio che la Cina sia un Paese speciale. (riproduzione riservata)
Paolo Panerai
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