domenica 19 gennaio 2014

Ma così non si va da nessuna parte
IL GOVERNO DEI SEPARATI IN CASA
Massimo Franco
I toni usati ieri nella Direzione del Pd da Matteo Renzi sono perentori, quasi minacciosi: verso gli avversari interni e verso il governo. Non ci sono concessioni a chi ha criticato il dialogo sulla riforma elettorale con Silvio Berlusconi. Viene bocciato qualunque cambio nei ministeri. Il progetto rimane quello di archiviare «le intese larghe o striminzite»; e di avere un sistema che preveda il premio di maggioranza. E chi pensa di tramare contro di lui col voto segreto in Parlamento, deve sapere che la coalizione salterebbe. Il senso è chiaro: il dominus del partito e dunque anche del governo è il segretario votato alle primarie di dicembre.

Forse la nomenklatura del Pd non l’aveva previsto, ma l’effetto dell’investitura è quello di dettare una strategia senza condizionamenti. Enrico Letta, incontrato nella notte, «può andare avanti» se fa bene, non ci sono scadenze per il suo governo. Renzi assicura di criticarlo «non per fargli le scarpe, ma per aiutarlo». E infatti lo pungola ruvidamente, imputandogli errori e inadeguatezze; e chiedendogli «una visione, non un rimpastino»: frecciate indirizzate a Palazzo Chigi, ma destinate a colpire lo stesso Quirinale.
Eppure, dietro tanta perentorietà si percepisce un filo di preoccupazione. È come se Renzi si rendesse conto di guidare dirigenti e parlamentari perplessi dai suoi metodi: al punto da attaccarlo in modo strumentale quando conferma un incontro con Berlusconi «per provare a chiudere». La durezza con la quale risponde ai critici è giustificata: è difficile dargli torto quando ricorda che col Cavaliere è stato formato un governo. Il sospetto, tuttavia, è che il tabù berlusconiano veli resistenze e riserve più di fondo.

A spaventare è un decisionismo sbrigativo che non tiene conto di equilibri fragili e in bilico; e che può preludere non alla palingenesi del sistema additata da Renzi, ma ad un precipizio servito sul piatto di Beppe Grillo. Il timore è che il nuovo vertice dei Democratici regali all’Italia una scorciatoia insidiosa solo per uscire dalle proprie frustrazioni post elettorali; e per far dimenticare il rosario delle «figuracce», come le chiama Renzi, assillato soprattutto dall’esigenza di evitare il proprio logoramento. In realtà, il segretario del Pd ha fretta ma potrebbe essere costretto a prendere tempo.

Di fatto, Renzi ha rinviato a lunedì la decisione sulla riforma elettorale perché non ha ancora una soluzione: aspetta di capire le vere intenzioni di Berlusconi. In più, indovina il dubbio che il «suo» sistema di voto riceva un’accoglienza ostile in Parlamento: tanto più nel momento in cui propone lo svuotamento del Senato. Renzi avverte che se a scrutinio segreto dovessero venire bocciate le sue proposte, salterà la maggioranza. Dunque, ci sarebbe la crisi e probabilmente si andrebbe alle urne.

Ma se l’accordo sulla legge elettorale si fa a prescindere dagli alleati e contro uno di loro, il Nuovo centrodestra, maltrattato anche ieri, c’è da chiedersi come Renzi possa pretendere ubbidienza e lealtà ad una coalizione governativa che lui per primo non riconosce come perno della sua strategia. Se poi il calcolo o anche solo la conseguenza di questa polemica fosse di spingere Angelino Alfano e il suo partito di nuovo nelle braccia di Berlusconi, per la sinistra sarebbe un capolavoro alla rovescia: l’ultima «figuraccia».

17 gennaio 2014
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