mercoledì 19 dicembre 2012
Aspettando la primavera
Cina, tra "primavere
mancate" e sfide future
Mercoledì 19 dicembre, ore 18
Libreria Orientalia
Via Cairoli, 63 Roma
Presentazione del libro “Cina, la primavera mancata”
(S. Montrella, S. Pieranni, A. Spalletta, A.Talia)
In collaborazione con AgiChina24 e China Files
L’Asino d’Oro Edizioni
Presenti gli autori del libro: Simone Pieranni, Alessandra Spalletta
Con la partecipazione straordinaria di Ilaria Maria Sala, corrispondente da Hong Kong per “La Stampa”
MODERA: Enrica Toninelli, caporedattrice esteri RaiNews24
Per gentile concessione dell'editore L'Asino d’Oro, pubblichiamo la prefazione di Ilaria Maria Sala
Dal 1989 ogni rivolta di piazza, in qualunque parte del mondo sia, ha sempre un termine di paragone che prima o poi viene esplicitato: la primavera di Pechino, i fatti di Tian’anmen. È uno strano destino: prima delle primavere arabe, prima delle rivoluzioni colorate, prima ancora della caduta di Suharto in Indonesia, e perfino, più indietro nel tempo, prima della caduta del muro di Berlino, c’era Tian’anmen. La primavera fallita, a cui però tutte le altre si sono ispirate. La primavera che lasciò per le strade della capitale cinese il sangue di studenti, operai, passanti, uomini e donne che avevano creduto nella possibilità di cambiare in meglio il paese. E il sangue di coloro che erano usciti in fretta nella notte fra il 3 e il 4 giugno per proteggere «i nostri studenti», come erano chiamati i manifestanti da tutti quelli che assistevano ammirati e inquieti alle loro proteste. Anche loro si trovarono ad affrontare i carri armati e i mitra dei soldati, e nei giorni successivi ci si rese conto che molti di questi osservatori partecipi pagarono con la vita il tentativo di ifendere i giovani ribelli di Tian’anmen. Nel 1989 l’intera Cina era sospesa fra due possibilità, entrambe impensabili. Da un lato, l’idea rivoluzionaria e semplice di ottenere libertà di stampa e di espressione, di estirpare la corruzione e il privilegio, e di avere, per tutti i cittadini, la possibilità di contribuire a eterminare il proprio futuro. Dall’altro, quella di una società che si chiudeva politicamente, che aumentava i controlli e diminuiva lo spettro del possibile, che decideva, dall’alto verso il basso, quali strade potevano essere percorse e quali invece sarebbero state precluse, e che imponeva di nuovo una lista dei pensieri accettabili e di quelli da schiacciare sul nascere.
Fra le due ipotesi, come sappiamo, i governanti cinesi scelsero di imporre la seconda, ma i ventitré anni che sono passati da quel momento hanno portato la Cina in una direzione diversa da ogni previsione, dimostrando, se ce ne fosse ancora bisogno, che il paese è troppo grande e troppo complesso per prestarsi alle fantasie di chi vuole guardare nella sfera di cristallo. Oggi la Cina è riuscita a coniugare una sua versione della modernità con un tipo di censura atemporale e anacronistica, che resiste caparbia a ogni tentativo di essere soffocata a suon di sberleffi, una propaganda che non si lascia turbare da nulla e che non ha nessun timore del ridicolo. È una potenza commerciale davanti alla quale tutti hanno voluto inginocchiarsi, molto prima che ciò fosse necessario, e molto più profondamente del dovuto. Nessuno, proprio nessuno si sarebbe aspettato, ventitré anni fa, che le cose avrebbero preso questa piega. Una volta ripulite le strade dai corpi delle vittime, dalle tende in cui dormivano gli studenti a Tian’anmen, dai carri armati bruciati nei giorni di guerriglia urbana che seguirono la repressione, dalle barricate costruite con arredi urbani divelti, e malgrado un coprifuoco severo che rimase in vigore fino alla fine di quell’anno, dovunque si sussurrava che di nuovo ‘qualcosa’ sarebbe successo e le libertà negate sarebbero state conquistate. Dopo più venti anni questi mormorii sono ormai rari, ma nondimeno, in Cina, come specifica questo volume puntuale e dettagliato, si è sempre un po’ sul chi vive, perché chissà, forse una nuova primavera potrebbe avere inizio.
Periodicamente, gli osservatori, tanto in Cina quanto all’estero, si illudono che il momento di un’apertura liberatoria sia arrivato: ora le speranze sono accese da uno dei cambiamenti ciclici della dirigenza, ora dai contraccolpi di eventi esterni che sembrano scuotere tutto, ora dal diffondersi delle nuove tecnologie, ora da alcune rivolte localizzate ma che parlano al paese intero, come nel 1989 ma meglio che nel 1989.
Il 2011, l’anno del sollevamento arabo che avrebbe potuto estendere il suo contagio al di fuori del Mediterraneo, ha visto dunque arrivare un altro di questi momenti in cui, per un attimo almeno, si guarda a quello che avviene in Cina chiedendosi se forse, chissà, è giunta l’occasione che farà accendere la scintilla capace di illuminare a giorno le speranze dei riformatori. Tanto più oggi, nell’era di Twitter e Weibo, un’epoca in cui le notizie vanno di furia e invecchiano in fretta, e che i famelici social network hanno bisogno di sempre nuove informazioni da consumare, ecco che in molti avevano già provveduto a scrivere articoli ed editoriali sull’inevitabile domino che doveva rendere febbricitante anche la Cina.
Doveva essere la primavera dei Gelsomini: ma non lo è stato. Questo libro spiega perché, individuando sulla scena cinese un protagonista forse poco noto all’estero, ma onnipresente: si tratta del weichi wending, solitamente abbreviato in weiwen, il «mantenimento della stabilità» sul quale i governanti cinesi hanno posto enfasi totale e assoluta. Stabilità a ogni costo, ovvero anche modulando le risposte a seconda del pericolo che il potere reputa di avere davanti.
I quattro giornalisti autori di questo volume spiegano molto bene, con esempi vivaci e una scrittura brillante, che una protesta può essere foriera di maggiore repressione nel caso si tratti di un movimento politico dissidente o, peggio ancora, di disordini che si accompagnano a tensioni etniche, come in Tibet o nel Xinjiang. Oppure, che può portare a concessioni impreviste e a compromessi soddisfacenti, quando invece si tratta di scioperi di operai e lavoratori che protestano per motivi contingenti (dai salari alle ore e condizioni lavorative), o della nuova borghesia urbana che si oppone a industrie inquinanti nel cortile di casa sua. Ci spiegano, cioè, che il regime sa adattarsi e anche ascoltare quando non si sente sotto attacco diretto, ma che non perdona nel caso in cui si metta in discussione la sua legittimità e i suoi metodi più profondi. E nel caso in cui questa spiegazione della Cina attuale, tutto sommato semplice, sembri chiarire le cose, ecco che in questo paese così restio alle generalizzazioni si devono aggiungere anche altre variabili – costituite, per esempio, dalle personalità che dirigono i giochi, che si sia a Chonqching o nel Guangdong.
Ma non solo, a complicare il quadro, è ovvio, c’è di più: per quanto lo Stato si impegni a mantenere la censura, per quanto il governo faccia per soffocare ogni informazione vera sotto tonnellate di notizie frivole senza peso specifico, i social network non sono del tutto imbavagliabili, e da sotto le dighe e le muraglie qualcosa riesce a filtrare, più veloce del delirio censorio che lo vuole intrappolato.
I dettagli, le dinamiche di tutto ciò, sono finalmente disponibili in questo volume che si sofferma a fare il punto di una situazione che, per essere capita, ha bisogno di tempo e pazienza, fornendo gli strumenti, la cronologia indispensabile e il contesto in cui tutto ciò si è sviluppato.
Di nuovo, dunque, come si può leggere qui, la primavera di Pechino è stata di nuovo una primavera mancata; questa volta, però, senza nemmeno quei momenti di gioia e speranza che avevano infiammato tanti cuori e che l’avevano resa un’ispirazione mondiale indimenticabile malgrado la sua tragica fine. La repressione, preventiva e totale, del 2011, mostra fino a che punto i contraccolpi del 1989 si riverberino ancora oggi in Cina, malgrado la fretta con cui innumerevoli osservatori vogliano descrivere come ormai dimenticato e irrilevante quel momento spartiacque della storia contemporanea cinese, quello è ancora oggi lo spettro che turba i sonni di un regime che, al suo interno, si sente molto più fragile di quanto non appaia da fuori.
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