Da Professioni & Imprese
INTERVISTA. A colloquio con Antonio Polito, editorialista e saggista
Il tempo è scaduto
Siamo una grande realtà e un paese patrimonializzato. Abbiamo dunque le risorse e la storia industriale per ripartire, ma continuiamo ad avere una qualità pessima delle politiche pubbliche
A cura della Redazione | 15 luglio 2013
di Massimiliano Cannata. "Da Milano deve partire una nuova rivoluzione industriale. Il Governo Letta ha intrapreso la strada giusta per ridare centralità ai temi del lavoro, dell'occupazione giovanile, ma occorre maggiore incisività per creare un contesto veramente favorevole allo sviluppo delle imprese". Romano Ambrogi, presidente di Aldai ha aperto i lavori dell'Assemblea Annuale che si è tenuta a Milano lo scorso 18 giugno (v. articolo a pagina 89), lanciando una provocazione molto forte alla classe politica, sottolineando che imprese e manager non sono disposte ad ammettere indugi: il tempo è
scaduto. Ne parliamo con Antonio Polito giornalista e saggista, che da molti anni segue con attenzione lo sviluppo dell'universo manageriale in rapporto ai grandi temi della politica e del dibattito pubblico. Nel recente saggio Contro i papà, dietro l'analisi del difficile rapporto generazionale tra i padri e i figli, Polito fa intravedere tutti i guasti di un ricambio che continua a mancare nell'ambito dell'intera classe dirigente italiana, mentre nell'ultimo lavoro In fondo a destra emerge il fallimento politico della cosiddetta "seconda repubblica", che ha di fatto lasciato il paese "bloccato" nelle secche di una crisi più grave e più lunga del previsto.
Polito, come giudica questa presa di posizione del mondo imprenditoriale della Lombardia, in cui opera circa un terzo dei dirigenti industriali italiani rappresentati da Federmanager?
Bisogna guardare con apprezzamento, oltre che con interesse, alle iniziative che il mondo di Federamanger sta intraprendendo per riportare al centro dell'agenda l'emergenza lavoro a tutti i livelli. Basti ricordare, per esempio, quello che sta accadendo riguardo alla necessità della ripresa industriale da più parti invocata. Dirigenti, manager, imprenditori che operano nelle grandi industrie, ma anche nelle Pmi danno giustamente voce a delle richieste che poi coincidono con quelle che il mondo produttivo in generale rivolge al potere politico. Trovo dunque che sia un metodo efficace quello di occuparsi del bene comune da parte di una categoria che ha il know how per articolare un discorso pubblico, se non altro perché conosce l'andamento delle aziende italiane e dunque nella nostra economia. La recente nascita di Prioritalia (lo scorso 10 giugno è stato redatto l'atto formale di costituzione, ndr) – il think tank che di fatto si presenta come un punto di convergenza tra le realtà di Federmanager, Manager Italia e la Nuova Cida, che ha l'ambizione di sottoporre all'attenzione delle istituzioni un "Progetto-Paese" − conferma un orientamento che si è visto anche a Milano e che va nella direzione giusta.
Aldai ha suggerito la costituzione di un Tavolo di confronto con la Regione Lombardia che poggia su cinque proposte concrete, ma anche molto impegnative. Dove trovare le risorse per un progetto tanto ambizioso?
Difficile rispondere. Una cosa è certa: il nostro sistema industriale è messo alla prova. Particolarmente duri sono stati questi anni di recessione, che sono arrivati, peraltro, a seguito di un lungo declino. Non va dimenticato che ancor prima che la recessione facesse sentire i suoi effetti, abbiamo avuto un periodo di stagnazione, che perdura dalla metà degli anni Novanta. Quest'ultima è una delle ragioni per cui il nostro paese è rimasto più indietro rispetto ad altri contesti europei. Non dimentichiamo che il nostro reddito pro capite è tornato ai livelli della seconda metà degli anni Novanta, solo la Grecia ha fatto peggio di noi. In questo contesto, non certo roseo, la ripresa è una necessità, non una scelta astratta, perché di questo passo perdiamo il nostro posto nel mondo. Siamo pur sempre il secondo paese manifatturiero d'Europa e l'ottavo del mondo, siamo infatti capaci di esprimere il 3,3% del Pil mondiale nel settore. Siamo una grande realtà e un paese patrimonializzato con ancora grandi capacità di risparmio, che in Italia si calcola in circa quattro volte il livello del debito pubblico. Abbiamo dunque le risorse e la storia industriale per ripartire. Purtroppo continuiamo a registrare una qualità pessima delle politiche pubbliche. La giustizia, l'istruzione, il mercato del lavoro, la ricerca, sono ambiti che dobbiamo rilanciare. Capisco i manager che hanno deciso di rivolgere una pressione ai poteri pubblici perché venga dato effetto concreto alle tante promesse di riforma non mantenute.
Quali conseguenze ha la sfiducia delle Pmi lombarde, delle partite Iva e dell'artigianato locale nei confronti della leadership regionale?
Molte sono le leadership indebolite in questa fase. Alcune addirittura non esistono più. Il Pd è ancora alla ricerca di una guida, il Pdl sappiamo in quali difficoltà naviga a seguito dei guai giudiziari di Berlusconi. Se non altro Roberto Maroni esercita una leadership, anche se indebolita dal conflitto interno, conflitto che esiste anche all'interno dei 5stelle e del Pdl. È dunque l'intero sistema Italia in difficoltà. Quello che piuttosto va notato, relativamente alla Lombardia, è semmai che ha rappresentato l'immagine ideale del modello di sviluppo economico e sociale incarnato dal centro destra. Questa regione è stata, nell'ultimo ventennio, retta sempre dal centro destra, dando corpo politico a un'alleanza speciale tra Lega e Forza Italia. Ha dunque espresso una sintesi tra due aspetti del nordismo, soprattutto è stata presentata al paese come il paradigma che ci avrebbe portato fuori dalla crisi. L'idea era chiara: lasciamo correre il Nord, diminuiamo le tasse (cosa che non è mai avvenuta con nessuno dei governi che si sono alternati) e tutto il paese ripartirà. Questo modello è chiaramente in crisi. Per tornare alla sua domanda, il punto debole dell'esperienza Maroni sta proprio in questa crisi del modello lombardo, che non può essere neanche lontanamente pareggiato dall'ipotesi della macro regione, realtà di difficilissima realizzazione costituzionale e forse di dubbia utilità pratica.
Rimanendo sui temi politici. Il "decreto del fare" va interpretato come un "primo passo" positivo da parte del governo?
È divertente che in Italia si facciano decreti del fare, è un modo per dire che gli altri sono solo decreti del "chiacchierare". Dario Di Vico ha parlato sul "Corsera" della "politica del cacciavite". L'esecutivo sta intervenendo a raddrizzare le criticità più gravi, si potrebbe dire che è stata messa in campo una politica della microchirurgia, che riguarda aspetti molto specifici e particolari dell'intera attività economica e industriale. Certo alcune cose vanno nel segno giusto, ed erano lungamente attese, penso a certi limiti che andavano imposti a Equitalia, che ha assunto atteggiamenti sovente vessatori nei confronti del contribuente; allo stesso modo la possibilità di rateizzare più a lungo i debiti contratti con lo stato per le Pmi è un provvedimento necessario. Non credo, e lo sappiamo tutti, che basti per rilanciare l'economia. Paradossalmente sarebbe più efficace per la ripresa scongiurare l'aumento dell'Iva e l'abolizione dell'Imu. Servirebbero, almeno a livello macro-economico, il taglio della spesa pubblica attraverso la riduzione degli sprechi che ancora ci sono e, a livello europeo, una politica meno austera, in una parola, più proiettata alla crescita. Da questo punto di vista, le elezioni di settembre in Germania saranno decisive.
Proviamo a guardare oltreoceano, alla possibile intesa tra il nostro premier e Obama, che si è intravista nel corso dell'ultimo G8, su una nuova possibile stagione di grandi liberalizzazioni. Cosa c'è da aspettarsi?
Tenderei a non aspettarmi molto da quello che avviene all'estero. Letta si sta muovendo bene. Ha detto il giorno del suo insediamento: manteniamo gli impegni, non torniamo indietro. Abbiamo affrontato quattro anni di lacrime e sangue per rientrare dalla procedura di deficit eccessivo, adesso che finalmente siamo tornati tra i paesi virtuosi non buttiamo al vento quanto abbiamo fatto. Il risultato raggiunto ci darà una maggiore agibilità sul fronte della spesa, consentendoci di non sottostare ai diktat europei. Parallelamente il premier ha creato le condizioni per impegnare delle risorse cofinanziate dai progetti europei. Abbiamo 30 miliardi della Bei da impegnare per progetti di sviluppo, ognuno dei quali gode della metà del sostegno della Bei e in pari misura del finanziamento nazionale. L'idea su cui si sta lavorando è semplice: considerare queste risorse fuori dal patto di stabilità, in modo da poterne disporre senza limitazioni. Ho richiamato questo esempio per sostenere che si tratta di interventi utili, a patto di non dimenticare che la sostanza dei nostri problemi è indigena, e va ricercata nelle mancate riforme, che la politica non è stata in grado di fare nel momento giusto. Siamo
così fatalmente giunti al momento dell'auspicata ripresa appesantiti, stanchi, invecchiati, e con un sistema industriale sotto pressione.
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