lunedì 8 aprile 2013


CULTURA
PECHINO: VIA LIBERA AL CRISTIANESIMO. 
SOLO IN TIBET
Anticipiamo il primo post del nuovo blog di AgiChina24 "Cina 3.0" di Claudia Astarita. Il blog sarà online a partire dalla prossima settimana.

di Claudia Astarita*
Twitter@CastaritaHK

Roma, 05 apr. - La politica religiosa della Repubblica popolare cinese sta diventando sempre più ambigua. Un esempio? Negli ultimi tempi la Cina iniziato a tollerare l’operato dei fondamentalisti cristiani in Tibet. Per due motivi: scardinare il credo locale e avere a disposizione una buona scusa per respingere le accuse della comunità internazionale di aver portato avanti sull’Himalaya una politica di assimilazione feroce e ingiusta.

Eppure, è dal 1949 che Pechino rincorre l’ideale dell’”uniformità religiosa”. Che dal punto di vista cinese significa l’affermazione di uno stato laico in cui l’unico punto di riferimento sia il Partito comunista. Ancora meglio se guidato da un leader carismatico facilmente associabile a una divinità “di fatto”, come è successo nel regno di Mao Zedong e in quello di Deng Xiaoping.

Si è affermata in quegli anni l’idea che qualsiasi credo alternativo andasse equiparato a una minaccia da stroncare sul nascere. Questo per evitare che i cinesi potessero essere liberi di scegliere se affidarsi interamente e totalmente al Grande o al Piccolo Timoniere, anche nei momenti di grande confusione e incertezza come possono essere stati la Rivoluzione Culturale e la tragedia di Tiananmen, o se cercare un conforto più intimo e personale in un credo alternativo.

Il Partito non ha mai fatto discriminazioni ad hoc tra Islam, Buddismo e Cristianesimo. Si è imitato a dichiararli fuori legge, e ha fatto lo stesso con movimenti spirituali come quello del Falun Gong . Per Pechino sono sempre stati tutti uguali, e colpevoli. Di un reato gravissimo: quello di sovversione.

Per capire cosa c’entra questa premessa con il nuovo orientamento del regime dobbiamo spostarci in Tibet, la regione autonoma annessa alla Repubblica popolare nel 1959, che convive da allora con l’esilio del suo leader spirituale, il Dalai Lama Tenzin Gyatso, con una politica di “assimilazione” forzata che si è fatta negli anni sempre più aggressiva, e che quasi sicuramente verrà costretta a rinunciare a uno dei principi base della sua religione, quello della reincarnazione del leader, perché il predestinato (Panchen Lama) riconosciuto da Tenzin Gyatso è stato rapito dalla polizia cinese e sostituito da un rappresentante più vicino a Pechino che, per ovvie ragioni, i tibetani considerano un invasore.

Negli ultimi decenni il Dalai Lama ha cercato in tutti i modi di tutelare il punto di vista del suo popolo, che chiede a gran voce l’autonomia, cercando un compromesso con la Cina nel nome della non violenza. Ebbene: dopo più di sessant’anni di tentativi falliti i tibetani non si fidano più nemmeno di lui. O meglio, pur senza mai metterne in discussione la superiorità di leader spirituale, ne hanno contestato l’efficacia di stratega politico, e hanno iniziato a organizzarsi per tentare di “liberarsi” da soli. Prima organizzando manifestazioni di protesta sempre più violente, poi inaugurando un macabro rituale di auto-immolazioni che ha recentemente superato le cento unità. Quelli dei tibetani sono gesti estremi, ispirati sia dalla disperazione sia dalla (triste) consapevolezza che nessuna potenza straniera metterà mai in discussione i propri legami con la Cina per proteggere una minoranza.

Da quando, nel 2009, le auto-immolazioni sono diventate sempre più frequenti, la quotidianità dei tibetani, purtroppo, è cambiata ben poco. Eppure, dopo cinque anni i giovani martiri dell’Himalaya un risultato lo hanno ottenuto. Anche se, purtroppo, non corrisponde all’obiettivo che si erano prefissati di raggiungere: la comunità internazionale ha chiesto alla Cina di fare qualcosa per fermare questo supplizio, e avendo gli occhi del mondo puntati su di se’ Pechino non può certo ricorrere alla violenza per risolvere il problema. Così ha trovato una strada alternativa: ha autorizzato i missionari fondamentalisti a fare proseliti sul suolo tibetano. Per sfruttare la loro collaborazione per scardinare i principi del buddismo dalle menti di questo gruppo di ribelli. Poco importa che in patria cattolici e protestanti, fondamentalisti e non, siano guardati a vista dalla polizia del regime e sia loro impedita qualsiasi attività. Anche i nemici più temuti possono diventare alleati se si mostrano interessati a combattere, al fianco del regime, per una “giusta” causa.

*Claudia Astarita è docente di politica cinese alla Luiss e a John Cabot University

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