martedì 20 novembre 2012
SPECIALE "CAMBIO AL VERTICE"
Medio Oriente: Usa
arretrano, Cina avanza
SPECIALE AGICHINA24 - CAMBIO AL VERTICE
a cura di Alessandra Spalletta e Antonio Talia
AgiChina24 seguirà lo svolgimento del Diciottesimo Congresso del Pcc a Pechino dall'8 al 14 novembre. L'atteso evento sancirà il passaggio di consegne dalla quarta alla quinta generazione di leader.
Lo Speciale sarà aggiornato ogni giorno e sarà ricco di notizie, approfondimenti e interviste a cura delle redazioni di Roma e di Pechino.
SPECIALE AGICHINA24 CAMBIO AL VERTICE
"Massima moderazione". E' quanto raccomanda il governo cinese alle opposte fazioni, ma soprattutto a Israele, nel conflitto in corso in Medio Oriente. "Invitiamo con fermezza le parti in causa - ha detto una portavoce del ministero degli Esteri di Pechino - in particolare Israele, a esercitare la massima moderazione". E mentre la Cina prende posizione sulla crisi, AgiChina24 propone un approfondimento sui rapporti tra il Dragone e il Medio Oriente.
di Eugenio Buzzetti
twitter@eastofnowest
Pechino, 19 nov.- Il Medio Oriente non può fare a meno della Cina. E' il dato principale delle recenti evoluzioni nei rapporti tra i Paesi dell'Asia occidentale e il Dragone. Pechino sa di essere un partner strategico per i Paesi della regione. E questo ruolo continuerà a influenzare i rapporti tra Cina e Medio Oriente ancora a lungo. Mentre gli Stati Uniti preparano il ritiro dai teatri di guerra, Pechino riempie il vuoto lasciato da Washington, e sposta gli equilibri nell'area.
Uno dei più importanti segnali della rinnovata influenza cinese nella regione è arrivato negli ultimi giorni di agosto, con la visita del presidente egiziano Mohammed Morsi a Pechino, la prima, per il nuovo capo di Stato egiziano in un Paese non medio-orientale. Il governo egiziano ha rinsaldato l'intesa politica con Pechino, esistente dal 1956, e ha chiesto, tramite il ministro agli Investimenti, un intervento maggiore nel Paese. Secondo i dati ufficiali cinesi, a fine 2011 l'interscambio commerciale Cina-Egitto era pari a 8,8 miliardi di dollari, in crescita rispetto all'anno precedente, attorno ai sette miliardi. E soprattutto maggiore dell'interscambio Usa-Egitto, che a fine 2011 aveva vissuto una leggera flessione, fermandosi a quota 8,3 miliardi di dollari. Dal viaggio di Stato era nata una nuova linea di credito da duecento milioni di dollari da China Development Bank a National Bank of Egypt. La bilancia commerciale è nettamente a favore del Dragone, che lo scorso anno ha esportato merci per 7,2 miliardi di dollari, contro gli 1,6 miliardi del Cairo. Morsi si propone come partner commerciale affidabile e come amico politico di lunga data. In cambio di maggiori investimenti, l'Egitto potrà diventare un partner strategico per Pechino.
"Il Medio Oriente sta diventando sempre più importante per la Cina -afferma ad Agi China 24 Li Guofu, direttore del Centro Studi per il Medio oriente del China Institute for International Studies- ma la Cina è una nuova arrivata nella regione e l'influenza degli Stati Uniti è ancora dominante. Pechino -continua l'analista- vuole trarre beneficio da un contesto stabile, e non intende quindi contrastare altri interessi".
Eppure, l'influenza cinese nel Medio Oriente è destinata a crescere. Secondo i dati del World Energy Outlook pubblicati dall'Agenzia Internazionale per l'Energia, la Cina è destinata a diventare un attore principale nello scacchiere energetico della regione. Dal 2030, Pechino sarà il primo importatore di petrolio iracheno. Ma, ancora di più, si sta creando un asse commerciale tra Pechino (Beijing, in cinese) e Baghdad, il "B&B link", come lo ha definito Fatih Birol, analista dell'agenzia, che potrebbe vedere la Cina in prima fila nella ricostruzione irachena, dove è già presente. La formula potrebbe essere quella della creazione di infrastrutture in cambio di risorse, già sperimentata da Pechino in diversi Paesi africani. Secondo recenti stime, a Baghdad servono 150 milioni di dollari per restaurare le infrastrutture dell'industria energetica, andate in rovina dopo lo scoppio della guerra. Difficile, però, secondo Li Guofu, fare stime a lungo termine. "Sicuramente gli interessi cinesi nella regione stanno diventando sempre più importanti -afferma il professore- ma è difficile fare previsioni anche solo per i prossimi cinque anni".
A dettare l'agenda dei rapporti di Pechino con il Medio Oriente, ma soprattutto con l'Asia Centrale, è poi la ricerca della sicurezza nelle aree più instabili. Gli ultimi mesi hanno visto un legame sempre più forte tra Pechino a Kabul. La Cina ha invitato l'Afghanistan a prendere parte al summit della Shanghai Cooperation Organization, il gruppo intergovernativo composto da Cina, Russia e quattro repubbliche ex-svoietiche, ospitato a Pechino nel giugno scorso. In quell'occasione, Hu Jintao ha firmato un accordo bilaterale di partnership strategica e cooperativa con il presidente afghano, Hamid Karzai, con l'impegno da parte cinese di fare entrare l'Afghanistan nella SCO come osservatore, e con la promessa di 150 milioni di dollari in aiuti.
A settembre, poi, c'era stata la visita a Kabul di Zhou Yongkang, la prima visita di un membro del Comitato Permanente del Politburo, organo supremo del potere cinese, dal 1966. Nel vecchio Comitato Permanente, Zhou era responsabile della sicurezza interna: al centro delle preoccupazioni cinesi c'è la possibilità che, con la progressiva uscita di scena delle truppe americane, i militanti di fazioni estremiste possano cercare di oltrepassare il confine tra i due Paesi, e penetrare nello Xinjiang, l'estremo ovest della Cina, a forte presenza musulmana. Per rafforzare la sicurezza interna all'Afghanistan, i due Paesi hanno raggiunto un accordo per l'addestramento della durata di quattro anni di trecento funzionari di polizia, che si sommano ai quasi mille già addestrati negli ultimi anni.
A sigillare i buoni rapporti tra i due Paesi, intorno alla metà di ottobre, è poi stato dato il via alle esplorazioni petrolifere nel bacino dell'Amu Darya, nel nord del Paese da parte di China National Petroleum Corporation. Il governo di Kabul ha salutato l'inizio dei lavori con grande calore. "CNPC -aveva dichiarato alla cerimonia inaugurale il ministro delle Miniere afghano Wahidullah Shahrani- estrarrà 1.950 barili al giorno, aiutando significativamente l'Afghanistan ad andare verso l'auto-sussistenza e l'indipendenza economica". Mentre il 2014 e il completo ritiro delle truppe Usa si avvicinano, Kabul guarda ora alla Cina come partner strategico per lo sviluppo.
Il 2012 ha segnato un cambiamento nei rapporti anche con l'Iran, grande alleato di Pechino nell'era di Ahmadinejad alla presidenza. L'intesa tra la Repubblica Islamica e il Dragone è migliorata negli di Ahmadinejad alla presidenza, che ha spostato verso est la bussola dei rapporti diplomatici di Teheran per contrastare la crescente tensione con i paesi occidentali e per attrarre investimenti dalle nuove potenze asiatiche. La Cina ha rappresentato per Ahmadinejad un contraltare all'influenza statunitense nella regione. Per Pechino, l'Iran è un produttore e fornitore di energia e una potenza non allineata con gli Usa nella regione. Dal 2007 la Cina è il primo partner commerciale dell'Iran. I rapporti tra i due Paesi si sono raffreddati dall'inizio del 2012, quando Teheran è stata colpita dalle sanzioni petrolifere occidentali per lo sviluppo del suo programma nucleare e Pechino ha dovuto fare i conti con il rallentamento della propria economia.
Le sanzioni occidentali hanno avuto come effetto il crollo del Rial, la valuta iraniana, e l'aumento dell'inflazione, che anche le stime ufficiali danno oltre il 20%. A settembre, c'è stata la visita a Teheran di Wu Bangguo, capo dell'Assemblea Nazionale del Popolo cinese e membro del Comitato Permanente del Politburo sotto la precedente amministrazione, per rafforzare i legami di cooperazione tra i due Paesi. Durante la visita, Cina e Iran hanno firmato un accordo per aumentare gli scambi commerciali. L'incontro è servito a ribadire le posizioni di Pechino sul nucleare iraniano e sulle sanzioni occidentali. Wu ha spiegato ai leader iraniani che la Cina si oppone a condizioni troppo dure e spera che l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica "giochi un ruolo costruttivo per promuovere gli sforzi diplomatici verso la soluzione pacifica della questione nucleare", secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa cinese Xinhua. Nonostante i proclami ufficiali, i rapporti tra le due nazioni hanno subito un contraccolpo difficile da nascondere: Pechino si è espressa inizialmente contraria alle sanzioni petrolifere contro Teheran, ma secondo gli osservatori, è poi venuta meno alle promesse di aumentare la quota di importazione di petrolio, come Teheran sperava, per colmare il vuoto lasciato dai Paesi che hanno aderito all'embargo petrolifero, e si è ritirata da alcuni investimenti in progetti energetici di importanza strategica per l'Iran.
La visita di Wu Bangguo segue di pochi giorni la decisione di Teheran di sospendere un contratto di forniture di gas con Pechino proprio in seguito al mancato finanziamento da parte cinese per la costruzione di un impianto di gnl. A fine luglio, poi, il colosso energetico cinese, China National Petroleum Corporation (CNPC) ha abbandonato il giacimento di South Pars per ritardi nell'avvio della fase 11, un danno ,secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa iraniana Mehr, quantificabile in 11 miliardi di dollari. Da giugno scorso, la Cina ha poi ridotto del 25% le sue importazioni per ottenere un esenzione dalle sanzioni dal Dipartimento di Stato Usa. Il presidente cinese Hu Jintao a giugno aveva poi consigliato a Teheran di riprendere i colloqui con Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Germania e la stessa Cina, e con l'AIEA. Un consiglio che sembra essere stato apprezzato: la possibilità che Teheran possa aprire una linea di dialogo con Washington non appare ora più così remota.
CINA E BRICS - FUGA DAL DOLLARO
Tra le critiche che negli anni hanno accompagnato i vertici dei Paesi BRIC prima e BRICS poi, con l'aggiunta del Sudafrica, c'è stata quella di essere un blocco economico, ma non un blocco politico. Le profonde divergenze a livello di ordinamento statale dei cinque Paesi membri, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, vanno dal differente peso delle rispettive economie, alle posizioni divergenti sulle aree calde del mondo, come l'Iran, o la Siria. La bilancia commerciale tra Pechino e New Delhi, per esempio, pende a favore del Dragone per 27 miliardi di dollari, e molto forte rimane la dipendenza cinese dalle risorse energetiche russe. Per la Cina, poi, le esportazioni contano molto più che per gli altri quattro all'interno del PIL. Nel caso siriano, invece, Mosca e Pechino hanno votato contro la risoluzione dell'ONU che chiedeva le dimissioni di Bashar Al-Assad, mentre Brasile, India e Sudafrica si sono espresse a favore. Su una cosa, però, i cinque paesi sono d'accordo: nel mondo multipolare di oggi le grandi istituzioni internazionali non posso essere più solo espressione dell'Occidente. Il quarto summit dei Paesi BRICS che si è tenuto a New Delhi nel marzo scorso ha avuto come esito principale la promozione dello scambio commerciale tra i paesi membri nelle valute locali. La fuga dal dollaro è stata accompagnata dalla possibilità di aprire una BRICS Bank, che possa fungere da alternativa a istituzioni occidentali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Per il club delle cinque grandi economie emergenti i grandi istituti internazionali hanno fatto il loro tempo e servono nuovi istituti di credito a livello globale.
Alle richieste di un cambiamento nelle regole del commercio internazionale, sono poi seguiti alcuni fatti. Nel settembre scorso, il governo cinese ha annunciato di avere iniziato a usare lo yuan nell'acquisto di petrolio russo, con Mosca che si è immediatamente dichiarata favorevole all'iniziativa. L'annuncio, che secondo alcuni analisti potrebbe costituire l'inizio di un nuovo ordine mondiale non più basato sul dollaro, arriva in un periodo di rapporti diplomatici floridi tra i due Paesi. Secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, le relazioni sino-russe hanno raggiunto un'intesa che non registravano da diversi anni. "I rapporti tra Russia e Cina non sono mai stati così buoni" aveva dichiarato il ministro alla vigilia della visita del presidente russo Vladimir Putin a Pechino per il dodicesimo summit dei Paesi membri della SCO.
Tra i successi della cooperazione bilaterale sino-russa, Lavrov ha indicato: l'accordo sulle dispute di confine, un record di 80 miliardi di dollari negli scambi commerciali, il coordinamento negli affari internazionali, e la cooperazione strategica nel settore energetico. Le parole del ministro degli esteri di Mosca riflettono la strategia asiatica del governo russo. Da sempre europeista nei rapporti politici e commerciali, Mosca ha mandato alcuni segnali di un rinnovato interesse verso l'Asia: il più tangibile è sicuramente l'istituzione di un Ministero per lo Sviluppo dell'Estremo Oriente, che dovrebbe investire decine di miliardi di dollari entro il 2020 per lo sviluppo della Siberia. Nel sottosuolo dell'Estremo Oriente russo giace il 70% delle riserve minerarie del Paese, che potrebbero essere esportate verso la Cina per soddisfarne il fabbisogno energetico. All'ultimo vertice Apec, che si è tenuto a Vladivostok all'inizio di settembre, Hu Jintao e Vladimir Putin hanno manifestato i loro timori per l'andamento della crisi economica globale, secondo Hu Jintao, ancora lontana dalla fine. I due leader hanno poi discusso dei rapporti bilaterali per spingere lo scambio commerciale a 100 milioni di dollari nel 2015, e 200 miliardi nel 2020.
Il 2012 è stato dichiarato l'anno dell'amicizia tra india e Cina. Una scelta simbolica, nel cinquantesimo anniversario della guerra tra i due giganti asiatici. La Cina è diventata il primo partner commerciale di New Delhi, prendendo il posto che tradizionalmente era degli americani, e i due Paesi mirano a toccare i 100 miliardi di dollari di scambi commerciali entro il 2015. Al di là delle dichiarazioni di intenti, tra Cina e India persistono ancora dispute di confine, con Pechino che controlla alcune zone del Kashmir e rivendica il territorio dell'Aruchanal Pradesh, che considera parte del Tibet meridionale. Ma a frapporsi a una maggiore intesa tra Pechino e New Delhi è soprattutto la "strategia del filo di perle" che Pechino porta avanti da anni nella fascia rivierasca dell'Oceano Indiano, con investimenti da centinaia di milioni di dollari in Pakistan, Sri Lanka, Bangladesh e Myanmar. Sono i punti di appoggio di Pechino lungo la rotta commerciale che porta allo Stretto della Malacca. Con l'ingresso dei capitali cinesi e la costruzione di infrastrutture (porti, autostrade, ecc.) nei paesi della fascia costiera asiatica, Pechino si assicura forti legami politici e una maggiore sicurezza per le petroliere che attraversano lo Stretto di Malacca cariche del greggio medio-orientale di cui la Cina è sempre più affamata. Per New Delhi, il "filo di perle" cinese è visto come un tentativo di accerchiamento dell'India nelle acque di sua competenza. E come un aumento dell'influenza cinese nel sud-est asiatico.
Eppure per l'India non ci sono alternative: i rapporti bilaterali con Pechino devono migliorare, se New Delhi vuole trovare spazio in alcuni mercati emergenti che possono rappresentare un'importante chance per il futuro, come il Myanmar, che dopo decenni di guerre sta uscendo dall'isolamento. Mentre le prospettive per i prossimi anni si ridimensionano, e da una crescita prevista del 9% si è passati a una del 6%, un editoriale comparso nei giorni scorsi sull'Economic Times sprona il governo di New Delhi a cogliere l'occasione del cambio di leadership a Pechino per migliorare i rapporti bilaterali. Pechino sta seguendo con attenzione i segnali che già ci sono: la necessità di investimenti nel settore delle infrastrutture potrebbe vedere il coinvolgimento di gruppi cinesi con tecnologie adeguate per le esigenze di New Delhi. La recente apertura del settore retail ai gruppi stranieri potrebbe aiutare le esportazioni, in calo negli ultimi mesi per la crisi dell'Eurozona, principale mercato di sbocco del Dragone. Su Pechino e New Delhi grava ancora il peso della Storia recente, ma l'attualità dell'economia, con un numero di consumatori in continuo aumento grazie agli effetti della crescita economica degli ultimi dieci anni, potrebbe mettere in secondo piano i livori del passato. "L'India -commenta ad Agi China 24 Chong Ja Ian, esperto di politica internazionale della National University di Singapore- nutre ancora perplessità nei rapporti con la Cina. Per Pechino, invece, non ci sono problemi di questo tipo. Questo ha spinto alcuni osservatori indiani ad affermare che i cinesi non li rispettino a sufficienza. Detto questo -conclude Chong- Pechino e New Delhi, sembrano entrambe sperare per migliori relazioni in futuro".
Se tra Cina e India e Cina e Russia ci sono relazioni decennali, e tensioni che trovano spiegazione nella contiguità territoriale (anche nel caso russo, con la silenziosa ma inarrestabile colonizzazione della Siberia da parte di contadini e lavoratori stagionali cinesi) i rapporti tra il Dragone e gli altri due Paesi dell'acronimo BRICS non risentono di tensioni legate a confini in comune, e le relazioni bilaterali sono improntate, almeno a livello ufficiale, a un beneficio reciproco nel campo del business, sulla scia dell'adagio caro a Pechino: la ricerca della win-win situation.
Nel luglio scorso, durante il Forum per la Cooperazione tra Cina e Africa, il presidente sudafricano Jacob Zuma ha ricordato che una relazione commerciale diseguale tra i Paesi africani e il resto del mondo non è più sostenibile, e lodato il governo di Pechino per avere improntato le relazioni bilaterali con il continente in maniera più propositiva. "Siamo piacevolmente sorpresi dal fatto che nella relazione con la Cina siamo uguali -ha dichiarato Zuma- e che gli accordi che ci legano sono volti al guadagno reciproco". Ma i rapporti commerciali tra Cina e Sudafrica -il Paese africano in cui Pechino investe di più- sono ampiamente sbilanciati a favore del Dragone: nel 2010, Pretoria ha esportato merci per 10,5 miliardi di dollari, ma la metà di queste erano minerali grezzi. La Cina è estremamente sensibile alle critiche di chi ritiene che sia interessata solo alle risorse e non a un rapporto paritario: nel 2010 Pechino ha invitato la Repubblica Sudafricana a unirsi al club dei BRIC. Secondo i dati diffusi dalla banca di investimenti Renaissance Capital, gli investimenti esteri di Pechino diretti in Sudafrica, l'anno prima avevano toccato i 2,3 miliardi di dollari, costituendo il 25% degli investimenti totali nel continente, di cui Pechino è il primo partner commerciale. A suggellare il buono stato di salute nei rapporti commerciali tra i due Paesi è arrivato nel settembre 2011 un accordo tra la Development of South Africa e China Development Bank per la realizzazione di progetti infrastrutturali del valore di 2,5 miliardi di dollari. L'accordo è stato accolto con calore dalle autorità sudafricane, come l'inizio di un nuovo partenariato basato non solo sull'export di minerali e materiali grezzi da parte di Pretoria, ma sull'opportunità di creare posti di lavoro per i cittadini di entrambi i Paesi.
E' difficile dire di no alla Cina. Il Brasile lo sa. Se ad attrarre l'attenzione di economisti e osservatori sono le percentuali che testimoniano la crescita esponenziale degli investimenti diretti cinesi in Brasile (+1500% dal 2000 ad oggi), i rapporti tra i due Paesi sono segnati dall'influenza che gli Stati Uniti hanno tradizionalmente su quello che considerano il loro vicino di casa: il Sud America. Con il Brasile, Pechino attua una politica non troppo diversa da quella che usa con i Paesi medio-orientali: trarre beneficio economico dagli affari senza apparentemente influire politicamente. Ma il peso economico del gigante asiatico in un territorio tradizionalmente visto dagli Usa come il giardino di casa è forte e il primo risvolto politico sembra essere quello di relegare gli Usa a un ruolo di secondo piano. Ancora una volta sono le risorse naturali il perno su cui ruotano i rapporti commerciali. Nel novembre 2011, Sinopec, il secondo colosso petrolifero del Dragone, ha firmato un accordo di 5,2 miliardi di dollari per acquistare il 30% degli asset brasiliani del gruppo petrolchimico portoghese Galp Energia. L'anno prima, nel 2010, Sinopec aveva già operato un investimento analogo, del valore di 7,1 miliardi di dollari per l'acquisizione degli asset brasiliani del gruppo spagnolo Repsol YPF, prima che la presidente dell'Argentina Kristina Kirchner decidesse di nazionalizzare quasi per intero la quota di YPF in mano agli spagnoli di Repsol. Non solo: Sinopec ha poi firmato un accordo oil-for-loan da dieci miliardi di dollari con il Paese verdeoro e la sua consociata Sinochem detiene una partecipazione da 3,1 miliardi di dollari in un giacimento offshore brasiliano gestito dalla norvegese Statoil. Nel giugno scorso, durante una visita del presidente della Camera dei Deputati brasiliano, Marco Maia, il primo ministro Wen Jiabao aveva dichiarato che i due Paesi devono continuare lungo la strada della cooperazione nei settori manifatturiero, delle infrastrutture, finanziario e dell'alta tecnologia. Ma gli accordi più importanti sono ancora quelli che riguardano l'approvvigionamento energetico di Pechino. E non solo in Brasile: l'87% delle esportazioni latinoamericane in Cina è costituito da materie prime. Un percentuale che scende al 40% quando riferita agli Stati Uniti d'America.
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