La Cina presenta il padiglione nazionale e il programma di eventi ad EXPO MILANO 2015
Un vero e proprio viaggio nella cultura cinese, fra tradizioni millenarie, paesaggi spettacolari e progressi compiuti nel campo della sostenibilità, seguendo il filo conduttore della ricerca di un equilibrio fra uomo e natura.
Sono stati svelati oggi il padiglione della Repubblica Popolare Cinese e il suo programma di eventi per Expo Milano 2015 alla presenza di Liao Juhua, Console Generale della Repubblica Popolare Cinese a Milano, Wang Jinzhen, Vicepresidente del China Council for the Promotion of International Trade (Ccpit) e Commissario Generale della Cina per Expo Milano 2015 e di Giuseppe Sala, Commissario Unico del Governo Italiano per Expo Milano 2015.
In occasione dell’incontro è stata firmata la lettera di intenti fra la società Expo 2015 Spa e il Comitato Organizzativo del Padiglione Cinese all’Esposizione Universale di Milano per un Road Show che, da settembre 2014, coinvolgerà 8 tra municipalità e province (Pechino, Shanghai, Guandong, Shandong, Hunan, Henan, Fujian, Chongqing) con un fitto programma di attività: dall’individuazione di un Ambassador di Expo Milano 2015 in Cina ad iniziative di promozione della tradizione culinaria italiana e cinese, da cicli di conferenze stampa ad eventi culturali e di business.
Scopo principale del road show sarà promuovere ulteriormente Expo Milano 2015 sul mercato cinese, valorizzare la presenza del Paese che, per la prima volta, partecipa ad un’Esposizione Universale con un Padiglione Self Built, attrarre turisti cinesi e supportare la campagna di ticketing che ha già avuto finora ottimi riscontri.
Sono infatti 500.000 i biglietti di Expo venduti fino ad oggi ai Tour Operator cinesi: la metà del target previsto di 1 milione, a quasi un anno dall’apertura ufficiale dell’Esposizione di Milano.
“Un risultato importante - ha commentato Giuseppe Sala, Commissario Unico del Governo Italiano per Expo Milano 2015 - che ci avvicina, ad 11 mesi dall’apertura, al nostro obiettivo di portare ad Expo 1 milione di turisti cinesi nel 2015. La partecipazione della Cina è davvero straordinaria per massa critica, ma anche e soprattutto per qualità, segnale forte dell’impegno di un grande Paese che vuole mostrare e spiegare nei dettagli la sua politica agricola, la storia e le innovazioni del futuro. Sono certo che quella cinese sarà fra le presenze di maggior successo ad Expo Milano 2015, che offrirà al Paese una strategica opportunità per far conoscere meglio la propria cultura e il proprio contributo alla grande sfida di uno sviluppo sostenibile per le prossime generazioni”.
“Expo Milano 2015 sarà una preziosa opportunità per la Cina e l'Italia per ampliare i canali di scambio, migliorare le intese, approfondire la cooperazione strategica, promuovere e consolidare le relazioni bilaterali – ha sottolineato Wang Jinzhen, Vicepresidente del China Council for the Promotion of International Trade (Ccpit) e Commissario Generale del Padiglione Cinese a Expo Milano 2015 - Per la Cina, seconda potenza economica mondiale e importante produttore agricolo, è di grande importanza essere presente all’appuntamento dell’Esposizione Universale di Milano. La Cina sarà uno dei paesi che partecipano a Expo Milano 2015 nei modi e nei contenuti più diversi. Innanzitutto è la prima volta che la Cina è presente ad una Esposizione Universale con padiglione Self Built. In secondo luogo, per la prima volta la Cina presenta, nell’ambito di una piattaforma di confronto internazionale, la sua agricoltura, il cibo, la storia e il futuro della propria cultura alimentare e la propria idea di sviluppo sostenibile. In terzo luogo, è la prima volta che imprese cinesi partecipano ad una Expo con un padiglione Self Built e, infine, sempre per la prima volta province e imprese parteciperanno ad un’Esposizione Universale. Sono convinto che, grazie al grande supporto del Governo Italiano e della Comunità Internazionale, Expo Milano 2015 sarà un evento memorabile e di alto profilo e porterà certamente lo scambio e la cooperazione fra la Cina e l’Italia a nuovi livelli”.
E’ la prima volta che la Cina presenta, su un palcoscenico mondiale quale Expo Milano 2015, la propria politica agricola, la storia e le innovazioni della propria cultura culinaria nonché l’impegno del Paese per uno sviluppo sostenibile e lo fa attraverso una presenza massiccia che vede, accanto al Padiglione Nazionale, altri due padiglioni: quello di Vanke, multinazionale cinese leader nel real estate e quello di China Corporate United Pavilion (CCUP), che riunirà una cordata di oltre 20 fra le principali aziende del Paese.
Il Padiglione della Repubblica Popolare Cinese
Con una superficie di 4.590 mq, il Padiglione della Repubblica Popolare Cinese (il secondo più grande dopo quello della Germania) accoglierà i visitatori con il tema “Terra di speranza, cibo per la vita” e un design ispirato ai valori tradizionali della convivenza armoniosa, “Heaven, Earth and Human”, che guidano anche la scelta dei materiali utilizzati nella costruzione, dal riso al bambù.
Il Progetto architettonico, elaborato da un consorzio formato dalla Tsinghua University e dal Beijing Qingshang Environmental & Architectural Design Institute, riproduce delle “onde di grano” dove le forme di un paesaggio naturale si fondono a quelle di uno skyline urbano, riprendendo le linee tradizionali dell’architettura cinese ed esaltandole attraverso l’uso delle moderne tecnologie. Il tetto realizzato in bambù filtra la luce naturale e permette di ridurre i consumi energetici in linea con il messaggio di sostenibilità promosso da Expo Milano 2015.
Cinque aree guideranno il visitatore nel suo viaggio alla scoperta del Padiglione, fra agricoltura, alimentazione, ambiente, natura e sviluppo sostenibile, punti focali della partecipazione della Cina a Expo Milano 2015.
Un’area di attesa accoglierà i visitatori con schermi LCD grazie ai quali potranno iniziare ad “esplorare” il padiglione e i suoi contenuti. Un’area “Paradiso” mostrerà, attraverso installazioni multimediali, i 24 periodi del calendario agricolo cinese, corrispondenti alle diverse posizioni del sole, e il loro significato nella cultura e nella produzione agricola del Paese. Il viaggio continuerà attraverso l’area “Human” dedicata alla rappresentazione di 16 elementi tipici della tradizione e dalla cultura cinese: dalle iscrizioni su ossa oracolari della provincia di Henan, la più antica forma di scrittura in Cina, agli spettacolari terrazzamenti di riso della provincia di Yunnan, dal 2013 patrimonio dell’Unesco; dalla cultura del tea della provincia di Fujian fino al riso ibrido sviluppato dal professor Yuan Longping. L’area “Terra” immergerà il visitatore nella natura multiforme del paesaggio cinese, fra campi sterminati, fiumi e montagne che, grazie all’uso di tecnologie a fibra ottica, attraverseranno le varie stagioni dell’anno. L’ultima area, dall’evocativo titolo “Armonia”, sarà il cuore del Padiglione cinese e ne rappresenterà il messaggio principale: la ricerca di quell’equilibrio tra uomo e natura, propria della filosofia cinese e perseguita attraverso i grandi passi compiuti nell’uso razionale delle risorse e nell’impegno verso uno sviluppo sostenibile.
Gli eventi
Un fitto programma di eventi animerà il Padiglione Cinese durante i sei mesi dell’Esposizione Universale: dalle Cerimonie di Apertura e Chiusura alla grande Cerimonia di Inaugurazione del Padiglione; da performance teatrali, forum e seminari agli scambi culturali; dalle attività finalizzate a consolidare la cooperazione fra Italia e Cina sui temi dell’agricoltura, dell’alimentazione e dell’economia fino al coinvolgimento, per la prima volta, di Province e Municipalità che si alterneranno in giornate o settimane dedicate a rappresentare gli elementi più tipici delle loro tradizioni. I piatti preparati da chef provenienti da otto famose Scuole di Cucina Cinese e momenti di show-cooking arricchiranno ulteriormente l’esperienza del visitatore.
Il logo e la Mascotte
E’ sempre la natura, nelle sue forme e colori, ad ispirare il logo del padiglione cinese: linee curve e piatte, che vanno dal blu del cielo al verde dei prati, l’oro dei cereali e il rosso per rappresentare la vita umana e il colore dell’inchiostro tipico della tradizione culturale cinese. La grafica suggerisce la tradizionale ideologia di armoniosa coesistenza di tutti gli elementi e di unità fra il cielo e l’uomo.
A fare da mascotte due personaggi: “He-he” e “Meng-meng”. L’ideogramma cinese “He ( 和 )” è composto da due pittogrammi che rappresentano, nella cultura cinese, il legame tra il grano e l’uomo, mentre “Meng (梦)” significa affrontare il futuro, un riflesso del desiderio di un domani luminoso, simbolo di aspettative e di speranza per un prospero raccolto.
lunedì 15 settembre 2014
Cina, tre padiglioni per Expo
Il sito espositivo del paese sarà organizzato in quattro temi e altrettante mostre.
L'investimento è di 50 milioni.
La Cina sbarca, in forze, all’Expo 2015 di Milano: saranno tre i padiglioni con cui il paese asiatico intende presentarsi all’esposizione universale, per omaggiare al meglio un evento che avrà «vaste dimensioni, lunga durata e una profonda influenza a livello internazionale», come ha spiegato Wang Jinzhen, vicepresidente del China Council for the Promotion of International Trade (Ccpit) e responsabile della partecipazione della Cina all’Expo. L’invstimento previsto è di 50 milioni di euro.
UNA PRESENZA FORTEMENTE SIMBOLICA
Presentando il Padiglione cinese in una conferenza stampa a Pechino, Jinzhen ha aggiunto: «La partecipazione cinese avrà un grande significato». Per realizzare il sito espositivo, che coprirà un’area di 4.590 metri quadri e sarà secondo solo a quello italiano, è stato scelto il progetto elaborato da un consorzio del quale fanno parte la Tsinghua University di Pechino e il Beijing Qingshang Environmental & Architectural Design Institute.
QUATTRO TEMI
Il Padiglione di Pechino sarà articolato su quattro temi e altrettante esibizioni. Nella prima, Paradiso, sarà sottolineata l’importanza del rispetto della natura; nella seconda, Terra, verrà presentata ai visitatori dell’Expo la struttura fisica e geografica della Cina; la mostra chiamata Umanità sarà dedicata alla storia della civilizzazione cinese mentre l’ultima, Armonia, sarà una riflessione sull’ importanza dell’armonia, dell’equilibrio e dello sviluppo sostenibile riallacciandosi ai temi di fondo dell’Expo.
TRE PADIGLIONI
Wang Jinzhen ha inoltre ricordato che la Cina sarà presente a Milano anche con altri due padiglioni, uno curato dalla Vanke, una delle più grosse imprese immobiliari della Cina, e l’altro da un consorzio di imprese cinesi. L’uno e l’altro, ha affermato, che saranno parte integrante del Padiglione cinese. Il Commissario cinese all’Expo ha inoltre sottolineato l’ importanza della partecipazione alle attività del Padiglione di 13 province, che organizzeranno in modo autonomo mostre, concerti e altri eventi.
IL LEGAME CON SHANGHAI
L’Ambasciatore italiano Alberto Bradanini, intervenendo nella conferenza stampa, ha messo in evidenza il legame tra l’ Expo di Milano e quella di Shanghai del 2010: il tema di quest’ultima era infatti Migliorare le città, migliorare la vita, che ben si sposa con quello di Milano 2015. Entrambi, ha sottolineato, hanno come obiettivo quello di «fornire alla comunità internazionale nuovi mezzi per migliorare lo sviluppo sostenibile del nostro Pianeta». Per Italia e Cina, ha aggiunto Bradanini, si tratta di «un appuntamento cruciale per portare ad un nuovo livello» le loro relazioni bilaterali.
Il sito espositivo del paese sarà organizzato in quattro temi e altrettante mostre.
L'investimento è di 50 milioni.
La Cina sbarca, in forze, all’Expo 2015 di Milano: saranno tre i padiglioni con cui il paese asiatico intende presentarsi all’esposizione universale, per omaggiare al meglio un evento che avrà «vaste dimensioni, lunga durata e una profonda influenza a livello internazionale», come ha spiegato Wang Jinzhen, vicepresidente del China Council for the Promotion of International Trade (Ccpit) e responsabile della partecipazione della Cina all’Expo. L’invstimento previsto è di 50 milioni di euro.
UNA PRESENZA FORTEMENTE SIMBOLICA
Presentando il Padiglione cinese in una conferenza stampa a Pechino, Jinzhen ha aggiunto: «La partecipazione cinese avrà un grande significato». Per realizzare il sito espositivo, che coprirà un’area di 4.590 metri quadri e sarà secondo solo a quello italiano, è stato scelto il progetto elaborato da un consorzio del quale fanno parte la Tsinghua University di Pechino e il Beijing Qingshang Environmental & Architectural Design Institute.
QUATTRO TEMI
Il Padiglione di Pechino sarà articolato su quattro temi e altrettante esibizioni. Nella prima, Paradiso, sarà sottolineata l’importanza del rispetto della natura; nella seconda, Terra, verrà presentata ai visitatori dell’Expo la struttura fisica e geografica della Cina; la mostra chiamata Umanità sarà dedicata alla storia della civilizzazione cinese mentre l’ultima, Armonia, sarà una riflessione sull’ importanza dell’armonia, dell’equilibrio e dello sviluppo sostenibile riallacciandosi ai temi di fondo dell’Expo.
TRE PADIGLIONI
Wang Jinzhen ha inoltre ricordato che la Cina sarà presente a Milano anche con altri due padiglioni, uno curato dalla Vanke, una delle più grosse imprese immobiliari della Cina, e l’altro da un consorzio di imprese cinesi. L’uno e l’altro, ha affermato, che saranno parte integrante del Padiglione cinese. Il Commissario cinese all’Expo ha inoltre sottolineato l’ importanza della partecipazione alle attività del Padiglione di 13 province, che organizzeranno in modo autonomo mostre, concerti e altri eventi.
IL LEGAME CON SHANGHAI
L’Ambasciatore italiano Alberto Bradanini, intervenendo nella conferenza stampa, ha messo in evidenza il legame tra l’ Expo di Milano e quella di Shanghai del 2010: il tema di quest’ultima era infatti Migliorare le città, migliorare la vita, che ben si sposa con quello di Milano 2015. Entrambi, ha sottolineato, hanno come obiettivo quello di «fornire alla comunità internazionale nuovi mezzi per migliorare lo sviluppo sostenibile del nostro Pianeta». Per Italia e Cina, ha aggiunto Bradanini, si tratta di «un appuntamento cruciale per portare ad un nuovo livello» le loro relazioni bilaterali.
domenica 7 settembre 2014
Dalai Lama choc: "Non eleggete un successore dopo di me"
La massima autorità del buddhismo tibetano: "La mia è una figura sorpassata, il buddhismo non dipende da un solo individuo"
Il Dalai Lama non vuole che alla sua morte sia eletto un successore e afferma che la propria figura rappresenta ormai "un'istituzione superata".
La notizia-choc arriva dal quotidiano tedesco Die Welt, in un'intervista con la massima autorità spirituale del buddhismo tibetano.
ll settantanovenne Tenzin Gyatso spiega come la religione buddhista non dipenda da una sola persona: "Così finiscono anche quasi cinque secoli di tradizione Dalai Lama e questo accade volontariamente. Le persone che pensano politicamente devono quindi rendersi conto che l’istituzione del Dalai Lama, dopo quasi 450 anni, dovrebbe aver fatto il suo tempo"
Un vero e proprio fulmine a ciel sereno per milioni di fedeli in tutto il mondo. Quella del Dalai Lama (termine che significa "Oceano di saggezza") è un'istituzione che sopravvive sin dal XV secolo ed è legata indissolubilmente all'identità nazionale del Tibet.
L'attuale Dalai Lama, però, non sembra disposto ad abdicare al proprio ruolo, e anzi guarda con fiducia agli anni a venire: "Secondo i medici arriverò a 100 anni. Stando ai miei sogni a 113. Ma 100, credo, saranno sicuri." Il premio Nobel per la Pace del 1989 inoltre ha spiegato di essere sicuro che riuscirà a tornare in Tibet prima di morire, terra da cui manca da cinquant'anni e di cui dice di avere una grande nostalgia.
Un'apertura inaspettata arriva invece verso la Cina: "Sotto il presidente Xi Jinping è iniziata una nuova era - ha spiegato conciliante il Dalai Lama - Vuole creare una società più armoniosa rispetto a quella del suo predecessore Hu Jintao. Inoltre, nella sua visita a Parigi del marzo scorso, aveva definito il buddismo come una parte importante della cultura cinese."
Giovanni Masini - Dom, 07/09/2014
La massima autorità del buddhismo tibetano: "La mia è una figura sorpassata, il buddhismo non dipende da un solo individuo"
Il Dalai Lama non vuole che alla sua morte sia eletto un successore e afferma che la propria figura rappresenta ormai "un'istituzione superata".
La notizia-choc arriva dal quotidiano tedesco Die Welt, in un'intervista con la massima autorità spirituale del buddhismo tibetano.
ll settantanovenne Tenzin Gyatso spiega come la religione buddhista non dipenda da una sola persona: "Così finiscono anche quasi cinque secoli di tradizione Dalai Lama e questo accade volontariamente. Le persone che pensano politicamente devono quindi rendersi conto che l’istituzione del Dalai Lama, dopo quasi 450 anni, dovrebbe aver fatto il suo tempo"
Un vero e proprio fulmine a ciel sereno per milioni di fedeli in tutto il mondo. Quella del Dalai Lama (termine che significa "Oceano di saggezza") è un'istituzione che sopravvive sin dal XV secolo ed è legata indissolubilmente all'identità nazionale del Tibet.
L'attuale Dalai Lama, però, non sembra disposto ad abdicare al proprio ruolo, e anzi guarda con fiducia agli anni a venire: "Secondo i medici arriverò a 100 anni. Stando ai miei sogni a 113. Ma 100, credo, saranno sicuri." Il premio Nobel per la Pace del 1989 inoltre ha spiegato di essere sicuro che riuscirà a tornare in Tibet prima di morire, terra da cui manca da cinquant'anni e di cui dice di avere una grande nostalgia.
Un'apertura inaspettata arriva invece verso la Cina: "Sotto il presidente Xi Jinping è iniziata una nuova era - ha spiegato conciliante il Dalai Lama - Vuole creare una società più armoniosa rispetto a quella del suo predecessore Hu Jintao. Inoltre, nella sua visita a Parigi del marzo scorso, aveva definito il buddismo come una parte importante della cultura cinese."
Giovanni Masini - Dom, 07/09/2014
LA STORIA DEL BAMBINO CHE E’ STATO IN BRACCIO A GESU’
13 LUGLIO 2014 / IN NEWS
E’ il 2003. Il 4 luglio – festa nazionale negli Stati Uniti – una normale famiglia americana che vive nel Nebraska, a Imperial, paesino agricolo che ha appena “duemila anime e neanche un semaforo”, sta stipando di bagagli una Ford Expedition blu.
I Burpo partono verso Nord per andare a trovare lo zio Steve,
che vive con la famiglia a Sioux Falls, nel South Dakota (hanno appena avuto un bambino e vogliono farlo vedere ai parenti).
L’auto blu imbocca la Highway 61. Alla guida c’è il capofamiglia Todd Burpo, accanto a lui la moglie Sonja e nel sedile posteriore il figlio Colton, di quattro anni, con la sorellina Cassie.
Fanno rifornimento a una stazione di servizio nel paese dove nacque il celebre Buffalo Bill prima di affrontare immense distese di campi di granoturco.
E’ la prima volta, in quattro mesi, che i Burpo si concedono qualche giorno di ferie dopo lo scioccante vicenda che hanno vissuto il 3 marzo di quell’anno.
Il piccolo Colton quel giorno aveva cominciato ad avere un forte mal di pancia. Poi il vomito. Stava sempre peggio finché i medici fecero la loro diagnosi: appendice perforata.
Fu operato d’urgenza a Greeley, in Colorado. Durante l’operazione la situazione sembrò precipitare: “lo stiamo perdendo! Lo stiamo perdendo!”.
Il bambino era messo molto male e passò qualche minuto assai critico. Poi però si era ripreso. Per il babbo e la mamma era stata un’esperienza terribile. Lacrime e preghiere in gran quantità come sanno tutti coloro che son passati da questi drammi.
IN CIELO
Dunque, quattro mesi dopo, il 4 luglio, la macchina arriva a un incrocio. Il padre Todd si ricorda che girando a sinistra, a quel semaforo, si arriva al Great Plains Regional Medical Center, il luogo dove avevano vissuto la scioccante esperienza.
Come per esorcizzare un brutto ricordo passato il padre dice scherzosamente al figlio: “Ehi, Colton, se svoltiamo qui possiamo tornare all’ospedale. Che ne dici, ci facciamo un salto?”.
Il bambino fa capire che ne fa volentieri a meno. La madre sorridendo gli dice: “Te lo ricordi l’ospedale?”.
Risposta pronta di Colton: “Certo, mamma, che me lo ricordo. È dove ho sentito cantare gli angeli”.
Gli angeli? I genitori si guardano interdetti. Dopo un po’ indagano.
Il bimbo racconta con naturalezza i particolari: “Papà, Gesù ha detto agli angeli di cantare per me perché avevo tanta paura. Mi hanno fatto stare meglio”.
“Quindi”, domanda il padre all’uscita del fast food, “c’era anche Gesù?”. Il bimbo fece di sì con la testa “come se stesse confermando la cosa più banale del mondo, tipo una coccinella in cortile. ‘Sì, c’era Gesù’ ”.
“E dov’era di preciso?”, domandò ancora il signor Burpo. Il figlio lo guardò dritto negli occhi e rispose: “Mi teneva in braccio”.
I due genitori allibiti pensano che abbia fatto un sogno nel periodo di incoscienza. Ma poi vacillano quando Colton aggiunge: “Sì. Quando ero con Gesù tu stavi pregando e la mamma era al telefono”.
Alla richiesta di capire come fa lui, che in quei minuti era in sala operatoria in stato di incoscienza, a sapere cosa stavano facendo i genitori, il bambino risponde tranquillamente: “Perché vi vedevo. Sono salito su in alto, fuori dal mio corpo, poi ho guardato giù e ho visto il dottore che mi stava aggiustando. E ho visto te e la mamma. Tu stavi in una stanzetta da solo e pregavi; la mamma era da un’altra parte, stava pregando e parlava al telefono”.
Era tutto vero. Così come era vero che la mamma di Colton aveva perduto una figlia durante una gravidanza precedente.
Colton, che era nato dopo, non l’aveva mai saputo, ma quella sorellina lui l’aveva incontrata in cielo e lei gli aveva spiegato tutto. Sconvolgendo i genitori: “Non preoccuparti, mamma. La sorellina sta bene. L’ha adottata Dio”. Di lei il ragazzo dice: “non la finiva più di abbracciarmi”.
STUPORE E CLAMORE
Comincia così, con la tipica semplicità dei bambini che raccontano cose eccezionali come fossero normali, una storia formidabile che poi il padre ha raccontato in un libro scritto con Lynn Vincent, “Heaven is for Real” (tradotto dalla Rizzoli col titolo “Il Paradiso per davvero”).
E’ da questo libro – che negli Stati Uniti è stato un best-seller – che vengono queste notizie. All’uscita, nel 2010, conquistò la prima posizione nella top ten del “New York Times” e subito dopo dalla storia di Colton è stato tratto un film che è appena arrivato in Italia (dal 10 luglio), sempre col titolo “Il Paradiso per davvero”.
Il film, col marchio Tristar, è diretto da Randall Wallace (lo sceneggiatore di Braveheart) e negli Stati Uniti ha avuto un grande successo.
Può anche essere che da noi sia un flop perché gli americani hanno una sensibilità religiosa molto più profonda di quella europea (il caso americano smentisce il paradigma della sociologia moderna secondo cui la religiosità declinerebbe quanto più aumenta la modernizzazione).
La storia (vera) del piccolo Colton peraltro è una tipica esperienza di pre-morte, cioè un fenomeno che l’editoria e la cinematografia americana in questi anni hanno scoperto e raccontato molto. Anche perché i maggiori istituti di sondaggio Usa hanno scoperto che si tratta di un’esperienza estremamente diffusa.
UN FENOMENO ENORME
Ne ho parlato nel mio ultimo libro, “Tornati dall’Aldilà”, perché negli ultimi quindici anni la stessa medicina ha studiato approfonditamente questi fenomeni scoprendo che non sono affatto da considerarsi allucinazioni, ma sono esperienze reali, vissute da persone in stato di morte clinica.
Gli studiosi (io ho citato specialmente i risultati di un’équipe olandese) si sono trovati a dover constatare che la coscienza (anzi una coscienza allargata, più capace di capire) continua a vivere fuori dal corpo anche dopo che le funzioni vitali del corpo e del cervello sono cessate.
E’ quella che – con linguaggio giornalistico – ho chiamato “la prova scientifica dell’esistenza dell’anima”. Questi stessi studiosi, con le loro analisi scientifiche, concludono che non si possono spiegare queste esperienze se non ricorrendo alla trascendenza.
Mi sono imbattuto personalmente in questo mistero con la vicenda di mia figlia e mi sono reso conto, dopo aver pubblicato il mio libro, che tanto grande è l’interesse popolare, della gente comune, quanto impossibile è in Italia una discussione sui giornali (o in altre sedi) fra intellettuali e studiosi, su questi fenomeni.
C’è letteralmente paura di guardare la realtà. La nostra è la cultura dello struzzo, quello che mette la testa dentro la sabbia per non vedere qualcosa che non vuole vedere.
C’è come una censura sull’Aldilà e – in fondo – sul nostro destino eterno: “Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta/ forse un po’ come si tace/ una speranza ineffabile” (Rilke).
Ma paradossalmente la censura sull’Aldilà (e specialmente sull’Inferno) c’è anche in un certo mondo cattolico che ha adottato “la sociologia come criterio principale e determinante del pensiero teologico e dell’azione pastorale” (Paolo VI).
Così accade che, paradossalmente, la scienza è arrivata a constatare il soprannaturale, in questi fenomeni, prima del mondo ecclesiastico e teologico.
Eppure la Vita oltre la vita sarebbe l’unica cosa davvero importante. La sola degna di meditazione. E’ il grande conforto nel dolore della vita. E’ stata la grande meta dei santi.
Forse bisogna aver assaporato proprio il dolore della vita e della morte per capire. Per avere questo sguardo e questa saggezza. Per lasciarsi consolare dalla Realtà di quell’abbraccio di felicità.
Eric Clapton, alla tragica morte del suo bimbo, scrisse una canzone struggente, “Tears in Heaven”, dove fra l’altro diceva: “Oltre la porta c’è pace ne sono sicuro/ E lo so non ci saranno più lacrime in Paradiso”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 13 luglio 2014
Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”
13 LUGLIO 2014 / IN NEWS
E’ il 2003. Il 4 luglio – festa nazionale negli Stati Uniti – una normale famiglia americana che vive nel Nebraska, a Imperial, paesino agricolo che ha appena “duemila anime e neanche un semaforo”, sta stipando di bagagli una Ford Expedition blu.
I Burpo partono verso Nord per andare a trovare lo zio Steve,
che vive con la famiglia a Sioux Falls, nel South Dakota (hanno appena avuto un bambino e vogliono farlo vedere ai parenti).
L’auto blu imbocca la Highway 61. Alla guida c’è il capofamiglia Todd Burpo, accanto a lui la moglie Sonja e nel sedile posteriore il figlio Colton, di quattro anni, con la sorellina Cassie.
Fanno rifornimento a una stazione di servizio nel paese dove nacque il celebre Buffalo Bill prima di affrontare immense distese di campi di granoturco.
E’ la prima volta, in quattro mesi, che i Burpo si concedono qualche giorno di ferie dopo lo scioccante vicenda che hanno vissuto il 3 marzo di quell’anno.
Il piccolo Colton quel giorno aveva cominciato ad avere un forte mal di pancia. Poi il vomito. Stava sempre peggio finché i medici fecero la loro diagnosi: appendice perforata.
Fu operato d’urgenza a Greeley, in Colorado. Durante l’operazione la situazione sembrò precipitare: “lo stiamo perdendo! Lo stiamo perdendo!”.
Il bambino era messo molto male e passò qualche minuto assai critico. Poi però si era ripreso. Per il babbo e la mamma era stata un’esperienza terribile. Lacrime e preghiere in gran quantità come sanno tutti coloro che son passati da questi drammi.
IN CIELO
Dunque, quattro mesi dopo, il 4 luglio, la macchina arriva a un incrocio. Il padre Todd si ricorda che girando a sinistra, a quel semaforo, si arriva al Great Plains Regional Medical Center, il luogo dove avevano vissuto la scioccante esperienza.
Come per esorcizzare un brutto ricordo passato il padre dice scherzosamente al figlio: “Ehi, Colton, se svoltiamo qui possiamo tornare all’ospedale. Che ne dici, ci facciamo un salto?”.
Il bambino fa capire che ne fa volentieri a meno. La madre sorridendo gli dice: “Te lo ricordi l’ospedale?”.
Risposta pronta di Colton: “Certo, mamma, che me lo ricordo. È dove ho sentito cantare gli angeli”.
Gli angeli? I genitori si guardano interdetti. Dopo un po’ indagano.
Il bimbo racconta con naturalezza i particolari: “Papà, Gesù ha detto agli angeli di cantare per me perché avevo tanta paura. Mi hanno fatto stare meglio”.
“Quindi”, domanda il padre all’uscita del fast food, “c’era anche Gesù?”. Il bimbo fece di sì con la testa “come se stesse confermando la cosa più banale del mondo, tipo una coccinella in cortile. ‘Sì, c’era Gesù’ ”.
“E dov’era di preciso?”, domandò ancora il signor Burpo. Il figlio lo guardò dritto negli occhi e rispose: “Mi teneva in braccio”.
I due genitori allibiti pensano che abbia fatto un sogno nel periodo di incoscienza. Ma poi vacillano quando Colton aggiunge: “Sì. Quando ero con Gesù tu stavi pregando e la mamma era al telefono”.
Alla richiesta di capire come fa lui, che in quei minuti era in sala operatoria in stato di incoscienza, a sapere cosa stavano facendo i genitori, il bambino risponde tranquillamente: “Perché vi vedevo. Sono salito su in alto, fuori dal mio corpo, poi ho guardato giù e ho visto il dottore che mi stava aggiustando. E ho visto te e la mamma. Tu stavi in una stanzetta da solo e pregavi; la mamma era da un’altra parte, stava pregando e parlava al telefono”.
Era tutto vero. Così come era vero che la mamma di Colton aveva perduto una figlia durante una gravidanza precedente.
Colton, che era nato dopo, non l’aveva mai saputo, ma quella sorellina lui l’aveva incontrata in cielo e lei gli aveva spiegato tutto. Sconvolgendo i genitori: “Non preoccuparti, mamma. La sorellina sta bene. L’ha adottata Dio”. Di lei il ragazzo dice: “non la finiva più di abbracciarmi”.
STUPORE E CLAMORE
Comincia così, con la tipica semplicità dei bambini che raccontano cose eccezionali come fossero normali, una storia formidabile che poi il padre ha raccontato in un libro scritto con Lynn Vincent, “Heaven is for Real” (tradotto dalla Rizzoli col titolo “Il Paradiso per davvero”).
E’ da questo libro – che negli Stati Uniti è stato un best-seller – che vengono queste notizie. All’uscita, nel 2010, conquistò la prima posizione nella top ten del “New York Times” e subito dopo dalla storia di Colton è stato tratto un film che è appena arrivato in Italia (dal 10 luglio), sempre col titolo “Il Paradiso per davvero”.
Il film, col marchio Tristar, è diretto da Randall Wallace (lo sceneggiatore di Braveheart) e negli Stati Uniti ha avuto un grande successo.
Può anche essere che da noi sia un flop perché gli americani hanno una sensibilità religiosa molto più profonda di quella europea (il caso americano smentisce il paradigma della sociologia moderna secondo cui la religiosità declinerebbe quanto più aumenta la modernizzazione).
La storia (vera) del piccolo Colton peraltro è una tipica esperienza di pre-morte, cioè un fenomeno che l’editoria e la cinematografia americana in questi anni hanno scoperto e raccontato molto. Anche perché i maggiori istituti di sondaggio Usa hanno scoperto che si tratta di un’esperienza estremamente diffusa.
UN FENOMENO ENORME
Ne ho parlato nel mio ultimo libro, “Tornati dall’Aldilà”, perché negli ultimi quindici anni la stessa medicina ha studiato approfonditamente questi fenomeni scoprendo che non sono affatto da considerarsi allucinazioni, ma sono esperienze reali, vissute da persone in stato di morte clinica.
Gli studiosi (io ho citato specialmente i risultati di un’équipe olandese) si sono trovati a dover constatare che la coscienza (anzi una coscienza allargata, più capace di capire) continua a vivere fuori dal corpo anche dopo che le funzioni vitali del corpo e del cervello sono cessate.
E’ quella che – con linguaggio giornalistico – ho chiamato “la prova scientifica dell’esistenza dell’anima”. Questi stessi studiosi, con le loro analisi scientifiche, concludono che non si possono spiegare queste esperienze se non ricorrendo alla trascendenza.
Mi sono imbattuto personalmente in questo mistero con la vicenda di mia figlia e mi sono reso conto, dopo aver pubblicato il mio libro, che tanto grande è l’interesse popolare, della gente comune, quanto impossibile è in Italia una discussione sui giornali (o in altre sedi) fra intellettuali e studiosi, su questi fenomeni.
C’è letteralmente paura di guardare la realtà. La nostra è la cultura dello struzzo, quello che mette la testa dentro la sabbia per non vedere qualcosa che non vuole vedere.
C’è come una censura sull’Aldilà e – in fondo – sul nostro destino eterno: “Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta/ forse un po’ come si tace/ una speranza ineffabile” (Rilke).
Ma paradossalmente la censura sull’Aldilà (e specialmente sull’Inferno) c’è anche in un certo mondo cattolico che ha adottato “la sociologia come criterio principale e determinante del pensiero teologico e dell’azione pastorale” (Paolo VI).
Così accade che, paradossalmente, la scienza è arrivata a constatare il soprannaturale, in questi fenomeni, prima del mondo ecclesiastico e teologico.
Eppure la Vita oltre la vita sarebbe l’unica cosa davvero importante. La sola degna di meditazione. E’ il grande conforto nel dolore della vita. E’ stata la grande meta dei santi.
Forse bisogna aver assaporato proprio il dolore della vita e della morte per capire. Per avere questo sguardo e questa saggezza. Per lasciarsi consolare dalla Realtà di quell’abbraccio di felicità.
Eric Clapton, alla tragica morte del suo bimbo, scrisse una canzone struggente, “Tears in Heaven”, dove fra l’altro diceva: “Oltre la porta c’è pace ne sono sicuro/ E lo so non ci saranno più lacrime in Paradiso”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 13 luglio 2014
Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”
sabato 6 settembre 2014
Italia in deflazione, ma Renzi pensa al gelato.
E noi dovremo pensare a leccarci le ferite.
Inizia a perdere sonoramente colpi il carrozzone comunicativo di Renzi. Non lo attestano solo i sondaggi in caduta libera, ma lo si evince anche dalla grottesca risposta con cui il premier ha replicato al settimanale The Economist. La copertina lo ritrae in compagnia di Draghi, Merkel e Hollande mentre mangia un cono fior di latte e cioccolato su una barchetta - fatta con una banconota da venti euro - che si sta inabissando.
Colpito nel suo straripante orgoglio mediatico, il nostro presidente del Consiglio ha optato per uno scontro all’arma bianca: il gelato. Ha investito un componente del cerimoniale del Governo dell’arduo compito di portare un carretto dei gelati nel cortile di Palazzo Chigi. Lo scopo era di farsi consegnare, al termine di un Consiglio dei Ministri inconcludente, un cono da esibire alla corte dei giornalisti convocati per la solenne risposta diplomatica all’affronto inglese. L’ex sindaco di Firenze ama stupire: in questo caso lo fa con una sceneggiata ridicola, con la quale l’unica speranza è che a beneficiarne siano state le esportazioni di gelato italiano all’estero. Ma su questo punto dovremo attendere il responso dei prossimi mesi.
Nel frattempo l’Italia arretra in tutti i ranking internazionali. Anzi, dopo oltre cinquant’anni l’Istat dichiara che il Paese è in deflazione: un chiaro sintomo di debolezza nella domanda di beni e servizi, in cui i consumatori e le aziende scelgono di posticipare gli acquisti aspettando ulteriori cali di prezzo. Una spirale economica perversa che porta con sé, con il calo dei consumi, minori assunzioni o addirittura un incremento dei licenziamenti - e la disoccupazione italiana, è bene ricordarlo, viaggia sul 12,6%...ma Renzi pensa al gelato.
Colpisce come un pugno allo stomaco l’arroganza con cui i nostri politici affrontano i dati sconfortanti che provengono quotidianamente dagli Istituti di ricerca e dai Centri studi nazionali e internazionali. Alla festa dell’Unità di Bologna il premier ha tuonato: ogni tanto qualcuno ci viene a fare la lezione sulle priorità, che noi abbiamo ben chiare. Non accettiamo lezioni. Eppure qualche consiglio forse farebbe bene ad accettarlo, visti i risultati negativi di questi mesi. Potrebbe anche evitare di mettere il bavaglio a chi non la pensa come lui, ad esempio i sindacati, le associazioni datoriali, le opposizioni. I numeri che ha collezionato in questi mesi hanno praticamente doppiato i record negativi del 2011, quegli stessi recod che avevano mosso le piazze contro il centrodestra alla guida del Paese in quel momento e che costarono a Berlusconi lo scranno più alto. C’è da domandarsi dove sia finito quel popolo che allora gridava le sue frustrazioni e che oggi, invece, resta in supino silenzio, pur vedendo il proprio Paese che crolla a picco. Niente scioperi, niente girotondi, niente V-day, niente proteste se non le lamentele da bar.
In una situazione interna del genere, il cittadino medio spererebbe almeno in alcune note positive dalla politica estera: ma anche lì l’Italia naviga a vista. Se da una parte il Governo ha incassato in queste ore la nomina di Federica Mogherini ad Alto rappresentante per la Politica Estera della Ue, dall’altra ha dovuto fare dietrofront sulle posizioni filorusse che aveva espresso con decisione fino ai primi niet che alcuni Paesi dell’Est, più la Gran Bretagna e la Svezia, avevano espresso contro la sua nomina, proprio per la vicinanza con Putin. In questo momento l’Italia è serva di quelle ingerenze statunitensi che da mesi vengono esercitate sulla vicenda Ucraina. Ingerenze che si sono sostanziate nelle sanzioni contro la Russia, e che oltre a cozzare con la tradizione democratica dell’Occidente costeranno un prezzo salatissimo all’economia italiana. Secondo le stime ufficiali di Coldiretti, il danno per il comparto agroalimentare potrebbe viaggiare tra i 200 e i 700 milioni di euro di esportazioni minori.
Secondo le stime Sace, lo scenario sarà ancora peggiore: l’export italiano sarà negativamente colpito dalle nuove sanzioni contro la Russia, con una possibile riduzione delle esportazioni Made in Italy in Russia nel biennio 2014-2015 compreso tra 0,9 e i 2,4 miliardi di euro a seconda dell`evoluzione dello scenario. Ci chiediamo allora: l’accanimento nella difesa della nomina della Mogherini ad una carica totalmente ininfluente per le partite veramente centrali per il Paese (fra tutte le norme sulla flessibilità del bilancio), quale prezzo costerà all’Italia?
Forse sarebbe stato meglio inghiottire silenziosamente l’indigesto cono dell’Economist e concentrarsi sull’unico vero compito che compete oggi a un leader italiano: il rilancio del Belpaese. Magari Renzi poteva partire dalla richiesta di regole nuove per l’Ue, parametrate ai tempi di crisi, ma così non è stato. C’è da sperare che dopo le brioche di Maria Antonietta, il premier Renzi non passi alla storia per l’uomo del carretto dei gelati. Avremo il tempo di scoprirlo?
Per saperne di più: http://italian.ruvr.ru/2014_09_02/Italia-in-deflazione-ma-Renzi-pensa-al-gelato-1098/
E noi dovremo pensare a leccarci le ferite.
Inizia a perdere sonoramente colpi il carrozzone comunicativo di Renzi. Non lo attestano solo i sondaggi in caduta libera, ma lo si evince anche dalla grottesca risposta con cui il premier ha replicato al settimanale The Economist. La copertina lo ritrae in compagnia di Draghi, Merkel e Hollande mentre mangia un cono fior di latte e cioccolato su una barchetta - fatta con una banconota da venti euro - che si sta inabissando.
Colpito nel suo straripante orgoglio mediatico, il nostro presidente del Consiglio ha optato per uno scontro all’arma bianca: il gelato. Ha investito un componente del cerimoniale del Governo dell’arduo compito di portare un carretto dei gelati nel cortile di Palazzo Chigi. Lo scopo era di farsi consegnare, al termine di un Consiglio dei Ministri inconcludente, un cono da esibire alla corte dei giornalisti convocati per la solenne risposta diplomatica all’affronto inglese. L’ex sindaco di Firenze ama stupire: in questo caso lo fa con una sceneggiata ridicola, con la quale l’unica speranza è che a beneficiarne siano state le esportazioni di gelato italiano all’estero. Ma su questo punto dovremo attendere il responso dei prossimi mesi.
Nel frattempo l’Italia arretra in tutti i ranking internazionali. Anzi, dopo oltre cinquant’anni l’Istat dichiara che il Paese è in deflazione: un chiaro sintomo di debolezza nella domanda di beni e servizi, in cui i consumatori e le aziende scelgono di posticipare gli acquisti aspettando ulteriori cali di prezzo. Una spirale economica perversa che porta con sé, con il calo dei consumi, minori assunzioni o addirittura un incremento dei licenziamenti - e la disoccupazione italiana, è bene ricordarlo, viaggia sul 12,6%...ma Renzi pensa al gelato.
Colpisce come un pugno allo stomaco l’arroganza con cui i nostri politici affrontano i dati sconfortanti che provengono quotidianamente dagli Istituti di ricerca e dai Centri studi nazionali e internazionali. Alla festa dell’Unità di Bologna il premier ha tuonato: ogni tanto qualcuno ci viene a fare la lezione sulle priorità, che noi abbiamo ben chiare. Non accettiamo lezioni. Eppure qualche consiglio forse farebbe bene ad accettarlo, visti i risultati negativi di questi mesi. Potrebbe anche evitare di mettere il bavaglio a chi non la pensa come lui, ad esempio i sindacati, le associazioni datoriali, le opposizioni. I numeri che ha collezionato in questi mesi hanno praticamente doppiato i record negativi del 2011, quegli stessi recod che avevano mosso le piazze contro il centrodestra alla guida del Paese in quel momento e che costarono a Berlusconi lo scranno più alto. C’è da domandarsi dove sia finito quel popolo che allora gridava le sue frustrazioni e che oggi, invece, resta in supino silenzio, pur vedendo il proprio Paese che crolla a picco. Niente scioperi, niente girotondi, niente V-day, niente proteste se non le lamentele da bar.
In una situazione interna del genere, il cittadino medio spererebbe almeno in alcune note positive dalla politica estera: ma anche lì l’Italia naviga a vista. Se da una parte il Governo ha incassato in queste ore la nomina di Federica Mogherini ad Alto rappresentante per la Politica Estera della Ue, dall’altra ha dovuto fare dietrofront sulle posizioni filorusse che aveva espresso con decisione fino ai primi niet che alcuni Paesi dell’Est, più la Gran Bretagna e la Svezia, avevano espresso contro la sua nomina, proprio per la vicinanza con Putin. In questo momento l’Italia è serva di quelle ingerenze statunitensi che da mesi vengono esercitate sulla vicenda Ucraina. Ingerenze che si sono sostanziate nelle sanzioni contro la Russia, e che oltre a cozzare con la tradizione democratica dell’Occidente costeranno un prezzo salatissimo all’economia italiana. Secondo le stime ufficiali di Coldiretti, il danno per il comparto agroalimentare potrebbe viaggiare tra i 200 e i 700 milioni di euro di esportazioni minori.
Secondo le stime Sace, lo scenario sarà ancora peggiore: l’export italiano sarà negativamente colpito dalle nuove sanzioni contro la Russia, con una possibile riduzione delle esportazioni Made in Italy in Russia nel biennio 2014-2015 compreso tra 0,9 e i 2,4 miliardi di euro a seconda dell`evoluzione dello scenario. Ci chiediamo allora: l’accanimento nella difesa della nomina della Mogherini ad una carica totalmente ininfluente per le partite veramente centrali per il Paese (fra tutte le norme sulla flessibilità del bilancio), quale prezzo costerà all’Italia?
Forse sarebbe stato meglio inghiottire silenziosamente l’indigesto cono dell’Economist e concentrarsi sull’unico vero compito che compete oggi a un leader italiano: il rilancio del Belpaese. Magari Renzi poteva partire dalla richiesta di regole nuove per l’Ue, parametrate ai tempi di crisi, ma così non è stato. C’è da sperare che dopo le brioche di Maria Antonietta, il premier Renzi non passi alla storia per l’uomo del carretto dei gelati. Avremo il tempo di scoprirlo?
Per saperne di più: http://italian.ruvr.ru/2014_09_02/Italia-in-deflazione-ma-Renzi-pensa-al-gelato-1098/
Russia e Mongolia ampliano la cooperazione
Una grande quantità di documenti è stata firmata durante la visita del presidente russo Vladimir Putin in Mongolia. Complessivamente Russia e Mongolia hanno concluso 15 accordi in vari settori, dalla cooperazione tecnico-militare all’introduzione del regime senza visti per i viaggi. I risultati della visita del presidente russo a Ulan Bator può essere definito come un importante passo avanti nello sviluppo della cooperazione bilaterale, secondo gli esperti russi.
Non è un segreto che negli ultimi anni il commercio russo-mongolo segnava una certa stagnazione. Vi è ancora un divario tra le grandi esportazioni russe e le minori importazioni mongole. Introdotto in questo Paese nei primi anni ‘90, il regime dei visti ha impedito lo sviluppo non solo nel reciproco turismo, ma anche nella cooperazione commerciale. L'insoddisfazione con Mosca è stata provocata da vari ostacoli, a volte artificiali e a volte legati agli scambi, ai progetti di investimento, introdotti dalla parte mongola. Per lungo tempo è andato in stallo il progetto di ammodernamento della ferrovia da Ulan Bator con la partecipazione russa. Erano incerte le prospettive sulla cooperazione tra i due Paesi per lo sviluppo dei giacimenti di carbone della Mongolia e di altre risorse. La Mongolia ha costantemente cambiato le regole del gioco.
Durante la visita del presidente russo è stato concordato un molteplice aumento dell'offerta di carne e derivati russi e firmato il regime senza visti. Adottata anche la "roadmap" per la modernizzazione della ferrovia di Ulan Bator. Le parti hanno annunciato la loro intenzione di aumentare a 10 miliardi di dollari entro il 2020 il fatturato del commercio.
È impossibile, ovviamente, dire che tutti gli ostacoli e le "trappole" nella cooperazione russo-mongola sono eliminati. La politica estera della Mongolia ha conservato una delle sue priorità ossia il "terzo vicino" guidato dagli Stati Uniti. Ma è fondamentale che la Mongolia politicamente abbia preso le distanze dagli Stati Uniti che hanno schierato una politica anti russa basata sulle sanzioni.
Ulan Bator ha deciso di non dar retta a Washington e non ha partecipato alla gara non dichiarata apertamente condotta tra gli ex Stati Sovietici su “chi farà più male alla Russia”. Questa mossa è stata sicuramente apprezzata da Mosca. Ciò ha permesso di approfondire la cooperazione russo-mongola su vari aspetti.
Tra l'altro, poco prima dell'arrivo del presidente russo ha visitato la Mongolia, in visita di Stato, il presidente cinese Xi Jinping. È logico guardare ad un'ulteriore evoluzione dei negoziati bilaterali, con l’apice rappresentato da un incontro a tre tra i leader di Russia, Mongolia e Cina, che si terrà, probabilmente l’11 settembre a Dushanbe a margine del vertice dei capi di stato membri della SCO.
E i vertici bilaterali russo-mongolo e cinese-mongolo dimostrano il rafforzamento della politica tradizionale mongola nel preservare le priorità strategiche del Nord (Russia) e del Sud (Cina). La leadership mongola efficacemente costruisce la propria "logistica politica" con la ricezione in serie dei principali leader di Cina e Russia, con il vertice tripartito "di Russia - Cina - Mongolia" nel quadro della SCO, sullo sfondo dell’APEC (Shanghai, Novembre 2014), con la prospettiva di adesione della Mongolia al Forum.
Per rafforzare le nuove relazioni russo-mongole ha lavorato la storia militare. Nel maggio del 1939, il tandem sovietico-mongolo rovinò i piani militaristi del Giappone sull’occupazione e la distruzione della Mongolia. Non è un segreto che nel 1990 in Mongolia il deposito dei fondi giapponesi e americani tenta di dimenticare o riscrivere la storia di Khalkhin Gol, presentando il Giappone non come l'aggressore, ma il "salvatore e pacificatore" dall’"aggressione sovietica e cinese." Invece, l'attuale leadership della Mongolia si è espressa su quegli eventi in modo diverso: "Ci ricorderemo sempre dell'impresa storica dei soldati russi e mongoli che, non risparmiando la loro giovinezza, hanno combattuto per l'inviolabilità del nostro Paese e della sua prosperità", ha detto il presidente mongolo Elbegdorj in una conferenza stampa sui risultati dei colloqui con Vladimir Putin.
Il presidente russo ha invitato Elbegdorj a venire a Mosca per celebrare il 70° anniversario della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Questo è un passo importante per preservare la memoria storica, proteggere la verità sugli eventi che hanno definito non solo i fondamenti del mondo moderno, ma anche il volto attuale della Asia Nord-orientale.
Per saperne di più: http://italian.ruvr.ru/2014_09_04/Russia-e-Mongolia-ampliano-la-cooperazione-4651/
Una grande quantità di documenti è stata firmata durante la visita del presidente russo Vladimir Putin in Mongolia. Complessivamente Russia e Mongolia hanno concluso 15 accordi in vari settori, dalla cooperazione tecnico-militare all’introduzione del regime senza visti per i viaggi. I risultati della visita del presidente russo a Ulan Bator può essere definito come un importante passo avanti nello sviluppo della cooperazione bilaterale, secondo gli esperti russi.
Non è un segreto che negli ultimi anni il commercio russo-mongolo segnava una certa stagnazione. Vi è ancora un divario tra le grandi esportazioni russe e le minori importazioni mongole. Introdotto in questo Paese nei primi anni ‘90, il regime dei visti ha impedito lo sviluppo non solo nel reciproco turismo, ma anche nella cooperazione commerciale. L'insoddisfazione con Mosca è stata provocata da vari ostacoli, a volte artificiali e a volte legati agli scambi, ai progetti di investimento, introdotti dalla parte mongola. Per lungo tempo è andato in stallo il progetto di ammodernamento della ferrovia da Ulan Bator con la partecipazione russa. Erano incerte le prospettive sulla cooperazione tra i due Paesi per lo sviluppo dei giacimenti di carbone della Mongolia e di altre risorse. La Mongolia ha costantemente cambiato le regole del gioco.
Durante la visita del presidente russo è stato concordato un molteplice aumento dell'offerta di carne e derivati russi e firmato il regime senza visti. Adottata anche la "roadmap" per la modernizzazione della ferrovia di Ulan Bator. Le parti hanno annunciato la loro intenzione di aumentare a 10 miliardi di dollari entro il 2020 il fatturato del commercio.
È impossibile, ovviamente, dire che tutti gli ostacoli e le "trappole" nella cooperazione russo-mongola sono eliminati. La politica estera della Mongolia ha conservato una delle sue priorità ossia il "terzo vicino" guidato dagli Stati Uniti. Ma è fondamentale che la Mongolia politicamente abbia preso le distanze dagli Stati Uniti che hanno schierato una politica anti russa basata sulle sanzioni.
Ulan Bator ha deciso di non dar retta a Washington e non ha partecipato alla gara non dichiarata apertamente condotta tra gli ex Stati Sovietici su “chi farà più male alla Russia”. Questa mossa è stata sicuramente apprezzata da Mosca. Ciò ha permesso di approfondire la cooperazione russo-mongola su vari aspetti.
Tra l'altro, poco prima dell'arrivo del presidente russo ha visitato la Mongolia, in visita di Stato, il presidente cinese Xi Jinping. È logico guardare ad un'ulteriore evoluzione dei negoziati bilaterali, con l’apice rappresentato da un incontro a tre tra i leader di Russia, Mongolia e Cina, che si terrà, probabilmente l’11 settembre a Dushanbe a margine del vertice dei capi di stato membri della SCO.
E i vertici bilaterali russo-mongolo e cinese-mongolo dimostrano il rafforzamento della politica tradizionale mongola nel preservare le priorità strategiche del Nord (Russia) e del Sud (Cina). La leadership mongola efficacemente costruisce la propria "logistica politica" con la ricezione in serie dei principali leader di Cina e Russia, con il vertice tripartito "di Russia - Cina - Mongolia" nel quadro della SCO, sullo sfondo dell’APEC (Shanghai, Novembre 2014), con la prospettiva di adesione della Mongolia al Forum.
Per rafforzare le nuove relazioni russo-mongole ha lavorato la storia militare. Nel maggio del 1939, il tandem sovietico-mongolo rovinò i piani militaristi del Giappone sull’occupazione e la distruzione della Mongolia. Non è un segreto che nel 1990 in Mongolia il deposito dei fondi giapponesi e americani tenta di dimenticare o riscrivere la storia di Khalkhin Gol, presentando il Giappone non come l'aggressore, ma il "salvatore e pacificatore" dall’"aggressione sovietica e cinese." Invece, l'attuale leadership della Mongolia si è espressa su quegli eventi in modo diverso: "Ci ricorderemo sempre dell'impresa storica dei soldati russi e mongoli che, non risparmiando la loro giovinezza, hanno combattuto per l'inviolabilità del nostro Paese e della sua prosperità", ha detto il presidente mongolo Elbegdorj in una conferenza stampa sui risultati dei colloqui con Vladimir Putin.
Il presidente russo ha invitato Elbegdorj a venire a Mosca per celebrare il 70° anniversario della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Questo è un passo importante per preservare la memoria storica, proteggere la verità sugli eventi che hanno definito non solo i fondamenti del mondo moderno, ma anche il volto attuale della Asia Nord-orientale.
Per saperne di più: http://italian.ruvr.ru/2014_09_04/Russia-e-Mongolia-ampliano-la-cooperazione-4651/
domenica 31 agosto 2014
Rapporto Svimez: un Paese spaccato diviso e diseguale.......
e la nostra Sardegna sempre più giù, giù, giù ed ancora
più giù al punto che non ne possiamo più
Roma - È un Paese «spaccato», «diviso e diseguale dove il sud scivola sempre più nell’arretramento» quello che emerge dal rapporto Svimez. Il Pil del Sud nel 2013 è «crollato del 3,5% contro il -1,4% del centro Nord; negli anni di crisi 2008-2013 «il Sud ha perso il 13,3% con il 7%». Il divario di Pil pro capite è tornato ai livelli di 10 anni fa.
Lo Svimez calcola che «nel 2013 il Pil è crollato nel Mezzogiorno del 3,5%, approfondendo la flessione dell’anno precedente (-3,2%), con un calo superiore di quasi due percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4%)». Ed è «per il sesto anno consecutivo» che il Pil del Mezzogiorno «registra segno negativo, a testimonianza della criticità dell’area». Anche gli andamenti di lungo periodo «confermano un Paese spaccato e diseguale: negli anni di crisi 2008-2013 il Sud ha perso -13,3% contro il 7% del Centro-Nord».
A livello regionale nel 2013 il segno è negativo per tutte le regioni italiane, a eccezione del Trentino alto Adige (+1,3%) e della stazionaria Toscana (0%). Anche le regioni del Centro-Nord, sono tornate a segnare cali significativi, come l’Emilia Romagna (-1,5%), il Piemonte (-2,6%), il Veneto (-3,6%), fino alla Valle d’Aosta (-4,4%). Nel Mezzogiorno la forbice resta compresa tra il -1,8% dell’Abruzzo e il -6% della Basilicata, fanalino di coda nazionale. In posizione intermedia la Campania (-2,1%), la Sicilia (-2,7%), il Molise (-3,2%). Giù anche Sardegna (-4,4%) , Calabria (-5%) e Puglia (-5,6%).
«Guardando agli anni della crisi, dal 2008 al 2013 - si legge nel rapporto Svimez -, profonde difficoltà restano soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16%, accanto alla Puglia (-14,3%), la Sicilia (-14,6%) e la Calabria (-13,3%). Nel periodo 2001-2013 l’Italia è andata «peggio della Grecia», «il tasso di crescita cumulato è stato + 15% in Germania, +19% in Spagna, + 14,3% in Francia. Segno positivo perfino in Grecia, +1,6%. Negativa l’Italia, con -0,2%, tirata giù sostanzialmente dal Mezzogiorno, che perde oltre il 7%, contro il +2% del Centro-Nord».
Nel periodo 2008-2013 «la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Mezzogiorno i 13 punti percentuali (-12,7%), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7%)»; gli investimenti fissi lordi «sono crollati del 33% nel Mezzogiorno e del 24,5% nel Centro-Nord»: quelli nell’industria si sono ridotti «addirittura del 53,4%, più del doppio rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-24,6%).
Giù anche gli investimenti nelle costruzioni, con un calo cumulato del -26,7% al Sud e del -38,4% al Centro-Nord, ed in agricoltura, (-44,6% al Sud, quasi tre volte più del Centro-Nord, -14,5%)». Ed è «ancora in calo la spesa pubblica per investimenti al Sud: nel 2012 la spesa aggiuntiva per il Sud è scesa al 67,3% del totale nazionale, ben al di sotto della quota dell’80% fissata per la ripartizione delle risorse aggiuntive tra aree depresse del Centro-Nord e del Sud del Paese». E sono «particolarmente preoccupanti i tagli agli investimenti in infrastrutture».
© Riproduzione riservata
e la nostra Sardegna sempre più giù, giù, giù ed ancora
più giù al punto che non ne possiamo più
Roma - È un Paese «spaccato», «diviso e diseguale dove il sud scivola sempre più nell’arretramento» quello che emerge dal rapporto Svimez. Il Pil del Sud nel 2013 è «crollato del 3,5% contro il -1,4% del centro Nord; negli anni di crisi 2008-2013 «il Sud ha perso il 13,3% con il 7%». Il divario di Pil pro capite è tornato ai livelli di 10 anni fa.
Lo Svimez calcola che «nel 2013 il Pil è crollato nel Mezzogiorno del 3,5%, approfondendo la flessione dell’anno precedente (-3,2%), con un calo superiore di quasi due percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4%)». Ed è «per il sesto anno consecutivo» che il Pil del Mezzogiorno «registra segno negativo, a testimonianza della criticità dell’area». Anche gli andamenti di lungo periodo «confermano un Paese spaccato e diseguale: negli anni di crisi 2008-2013 il Sud ha perso -13,3% contro il 7% del Centro-Nord».
A livello regionale nel 2013 il segno è negativo per tutte le regioni italiane, a eccezione del Trentino alto Adige (+1,3%) e della stazionaria Toscana (0%). Anche le regioni del Centro-Nord, sono tornate a segnare cali significativi, come l’Emilia Romagna (-1,5%), il Piemonte (-2,6%), il Veneto (-3,6%), fino alla Valle d’Aosta (-4,4%). Nel Mezzogiorno la forbice resta compresa tra il -1,8% dell’Abruzzo e il -6% della Basilicata, fanalino di coda nazionale. In posizione intermedia la Campania (-2,1%), la Sicilia (-2,7%), il Molise (-3,2%). Giù anche Sardegna (-4,4%) , Calabria (-5%) e Puglia (-5,6%).
«Guardando agli anni della crisi, dal 2008 al 2013 - si legge nel rapporto Svimez -, profonde difficoltà restano soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16%, accanto alla Puglia (-14,3%), la Sicilia (-14,6%) e la Calabria (-13,3%). Nel periodo 2001-2013 l’Italia è andata «peggio della Grecia», «il tasso di crescita cumulato è stato + 15% in Germania, +19% in Spagna, + 14,3% in Francia. Segno positivo perfino in Grecia, +1,6%. Negativa l’Italia, con -0,2%, tirata giù sostanzialmente dal Mezzogiorno, che perde oltre il 7%, contro il +2% del Centro-Nord».
Nel periodo 2008-2013 «la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Mezzogiorno i 13 punti percentuali (-12,7%), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7%)»; gli investimenti fissi lordi «sono crollati del 33% nel Mezzogiorno e del 24,5% nel Centro-Nord»: quelli nell’industria si sono ridotti «addirittura del 53,4%, più del doppio rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-24,6%).
Giù anche gli investimenti nelle costruzioni, con un calo cumulato del -26,7% al Sud e del -38,4% al Centro-Nord, ed in agricoltura, (-44,6% al Sud, quasi tre volte più del Centro-Nord, -14,5%)». Ed è «ancora in calo la spesa pubblica per investimenti al Sud: nel 2012 la spesa aggiuntiva per il Sud è scesa al 67,3% del totale nazionale, ben al di sotto della quota dell’80% fissata per la ripartizione delle risorse aggiuntive tra aree depresse del Centro-Nord e del Sud del Paese». E sono «particolarmente preoccupanti i tagli agli investimenti in infrastrutture».
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venerdì 22 agosto 2014
Accordo tra Russia e Cina: la de-dollarizzazione accelera!
Gli ultimi 3 mesi hanno visto i piani di “de-dollarizzazione” della Russia accelerare. Prima i clienti di Gazprom sono approdati agli euro e al renminbi , poi i contratti di currency swap vengono siglati tra Regno Unito e Cina , successivamente l’alleato della NATO, la Turchia taglia i legami e pensa alla de-dollarizzazione , la Svizzera rimbalza i contratti di currency swap, e i BRICS creano un proprio veicolo finanziario non basato sul sistema finanziario USA e poi finalmente questa settimana gli oligarchi russi spostano le loro riserve nelle casse di Hong Kong. Ma proprio questa settimana, come riporta RT ,le banche centrali di Russia e Cina hanno concordato una bozza di un contratto sullo swap, che consentirà loro di aumentare gli scambi nelle valute nazionali e tagliare la dipendenza dal dollaro statunitense nei pagamenti bilaterali.”L’accordo stimolerà l’ulteriore sviluppo degli scambi diretti in yuan e rubli sui mercati dei cambi nazionali di Russia e Cina , “il regolatore russo ha detto.
Gli ultimi 3 mesi hanno visto i piani di “de-dollarizzazione” della Russia accelerare. Prima i clienti di Gazprom sono approdati agli euro e al renminbi , poi i contratti di currency swap vengono siglati tra Regno Unito e Cina , successivamente l’alleato della NATO, la Turchia taglia i legami e pensa alla de-dollarizzazione , la Svizzera rimbalza i contratti di currency swap, e i BRICS creano un proprio veicolo finanziario non basato sul sistema finanziario USA e poi finalmente questa settimana gli oligarchi russi spostano le loro riserve nelle casse di Hong Kong. Ma proprio questa settimana, come riporta RT ,le banche centrali di Russia e Cina hanno concordato una bozza di un contratto sullo swap, che consentirà loro di aumentare gli scambi nelle valute nazionali e tagliare la dipendenza dal dollaro statunitense nei pagamenti bilaterali.”L’accordo stimolerà l’ulteriore sviluppo degli scambi diretti in yuan e rubli sui mercati dei cambi nazionali di Russia e Cina , “il regolatore russo ha detto.
ECONOMIA REALE
Al via il progetto Bce per dare credito alle imprese
Si tratta del Tltro, un credito agevolato alle banche a condizione che i soldi siano "girati" alle imprese.
In Italia arriveranno 52 miliardi
Il Sole 24 Ore, con un articolo firmato da Marco Ferrando, dà notizia che i vertici delle più grandi banche italiane hanno ormai deciso di chiedere alla Bce 51,8 miliardi di euro per finanziare le piccole imprese.
Il tutto nell’ambito del progetto messo a punto da Mario Draghi noto con l’acronimo Tltro (Targeted long term refinancing operations), che sostanzialmente sostituisce il precedente (fallimentare) piano denominato Ltro (senza la T, in pratica), che si avvia alla conclusione con il risultato di aver completamente mancato l’obiettivo di iniettare liquidità nell’economia reale.
Infatti, all’atto pratico, dei 255 miliardi ottenuti dalle banche italiane tra il 2011 e l’inizio del 2012, alla fine di giugno ne risultavano ancora 160 “in pancia”, cioè non utilizzati per il fine che si era prefissa la Bce; ed ora, ovviamente, saranno rimborsati. Molte di queste risorse, in realtà, sono state usate dalle banche per comprare titoli di stato.
Con il nuovo progetto della Bce, tuttavia -cioè quello con la T in più (il Tltro)- questo uso “distorto” dei fondi agevolati non sarà più possibile, perché se non saranno prestati alle imprese dovranno essere restituiti ed, inoltre, “chi non presta non potrà partecipare alle nuove Tltro”. In pratica, sono prestiti agevolati “condizionati”; e francamente c’è da chiedersi perché questa cosa (sacrosanta) non sia stata fatta prima.
Infatti, per cercare di uscire dal tunnel della crisi economica che affligge l’eurozona -e non solo- è assolutamente indispensabile aprire i rubinetti del credito per iniettare linfa vitale nelle casse delle piccole imprese e sperare che si apra un “circolo virtuoso” che porti all’aumento dei consumi, della produzione, dell’occupazione e conseguentemente del Pil.
Draghi ha annunciato che la prima delle otto assegnazioni di fondi previste avverrà a settembre e la seconda a dicembre, per un totale previsto per l’anno in corso pari a circa 400 miliardi e con l’ambizioso obiettivo di arrivare, entro tre anni, all’astronomica cifra di 1.000 miliardi di euro.
Per quanto riguarda le banche italiane, le procedure di rito sono in corso da tempo e la Banca d’Italia ha rilasciato i relativi documenti ai primi di agosto. Come si è detto, si tratta di 51,8 miliardi, richiesti in particolare da Intesa S. Paolo (17 mld), Unicredit (fino a 15 mld) ed altri gruppi per cifre minori, incentivati da un tasso fisso molto basso (0,25%) con scadenza quadriennale e, cosa più importante -visti i brutti precedenti- che possono essere destinati “esclusivamente” al finanziamento delle imprese; in caso contrario le banche dovranno restituire le somme in anticipo alla Bce.
Moreno Morando
(20 agosto 2014)
Al via il progetto Bce per dare credito alle imprese
Si tratta del Tltro, un credito agevolato alle banche a condizione che i soldi siano "girati" alle imprese.
In Italia arriveranno 52 miliardi
Il Sole 24 Ore, con un articolo firmato da Marco Ferrando, dà notizia che i vertici delle più grandi banche italiane hanno ormai deciso di chiedere alla Bce 51,8 miliardi di euro per finanziare le piccole imprese.
Il tutto nell’ambito del progetto messo a punto da Mario Draghi noto con l’acronimo Tltro (Targeted long term refinancing operations), che sostanzialmente sostituisce il precedente (fallimentare) piano denominato Ltro (senza la T, in pratica), che si avvia alla conclusione con il risultato di aver completamente mancato l’obiettivo di iniettare liquidità nell’economia reale.
Infatti, all’atto pratico, dei 255 miliardi ottenuti dalle banche italiane tra il 2011 e l’inizio del 2012, alla fine di giugno ne risultavano ancora 160 “in pancia”, cioè non utilizzati per il fine che si era prefissa la Bce; ed ora, ovviamente, saranno rimborsati. Molte di queste risorse, in realtà, sono state usate dalle banche per comprare titoli di stato.
Con il nuovo progetto della Bce, tuttavia -cioè quello con la T in più (il Tltro)- questo uso “distorto” dei fondi agevolati non sarà più possibile, perché se non saranno prestati alle imprese dovranno essere restituiti ed, inoltre, “chi non presta non potrà partecipare alle nuove Tltro”. In pratica, sono prestiti agevolati “condizionati”; e francamente c’è da chiedersi perché questa cosa (sacrosanta) non sia stata fatta prima.
Infatti, per cercare di uscire dal tunnel della crisi economica che affligge l’eurozona -e non solo- è assolutamente indispensabile aprire i rubinetti del credito per iniettare linfa vitale nelle casse delle piccole imprese e sperare che si apra un “circolo virtuoso” che porti all’aumento dei consumi, della produzione, dell’occupazione e conseguentemente del Pil.
Draghi ha annunciato che la prima delle otto assegnazioni di fondi previste avverrà a settembre e la seconda a dicembre, per un totale previsto per l’anno in corso pari a circa 400 miliardi e con l’ambizioso obiettivo di arrivare, entro tre anni, all’astronomica cifra di 1.000 miliardi di euro.
Per quanto riguarda le banche italiane, le procedure di rito sono in corso da tempo e la Banca d’Italia ha rilasciato i relativi documenti ai primi di agosto. Come si è detto, si tratta di 51,8 miliardi, richiesti in particolare da Intesa S. Paolo (17 mld), Unicredit (fino a 15 mld) ed altri gruppi per cifre minori, incentivati da un tasso fisso molto basso (0,25%) con scadenza quadriennale e, cosa più importante -visti i brutti precedenti- che possono essere destinati “esclusivamente” al finanziamento delle imprese; in caso contrario le banche dovranno restituire le somme in anticipo alla Bce.
Moreno Morando
(20 agosto 2014)
L'inarrestabile avanzata dell'economia cinese
Nella classifica delle piu' grandi imprese del mondo, ai primi posti troviamo tre banche di Pechino.
Proprio nel giorno in cui in Italia, dal comune di Milano, segnalano che i cognomi “Rossi” e “Brambilla” (che un tempo da quelle parti la facevano da padroni) sono stati ormai superati da un cognome cinese (Hu), il “Global Rank” delle imprese più grandi del mondo ha riservato un bel po’ di sorprese a chi ha una visione un po’ superata delle dinamiche dell’Economia globale. Ne dà notizia TMnews.
Infatti, nella classifica di Forbes delle aziende più grandi del globo, la Cina ha superato le aziende statunitensi, relegate in posizione di rincalzo. E’ da qualche tempo ormai che i due colossi (USA e Cina) si fronteggiano in una sorta di “testa a testa” per vincere la gara per l’economia globale nel XXI secolo, ma non ci si aspettava certo di vedere ai primi tre posti tre banche cinesi, guidate dalla ICBC.
La prima banca americana, la JPMorgan Chase, si piazza solo al quarto posto; con altre tre istituti bancari e finanziari statunitensi nelle prime dieci. In sostanza, le banche la fanno da padrone e nella top ten si trovano solo tre “aziende tradizionali”, in particolare del settore energetico, vale a dire : Exxon Mobil, General Electric e PetroChina.
La classifica redatta da Forbes tiene conto delle vendite, dei profitti, del patrimonio e del valore di mercato. TMnews ha sottolineato che fino a qualche anno fa la General Electric faceva il bello ed il cattivo tempo, ma ora deve cedere i primi posti alle banche ed accontentarsi di piazzarsi tra le prime dieci imprese del mondo.
Per quanto riguarda il mondo del web, si segnala che Apple si piazza solo al 15° posto, Samsung al 22°, Microsoft al 32° e Google al 52°. Per quello che attiene, invece, alla aziende italiane è stato evidenziato che solo due imprese del settore energetico trovano posto nelle prime cento del “Global Rank” : l’Eni al 39° posto e l’Enel al 74°.
Moreno Morando
(18 agosto 2014)
Nella classifica delle piu' grandi imprese del mondo, ai primi posti troviamo tre banche di Pechino.
Proprio nel giorno in cui in Italia, dal comune di Milano, segnalano che i cognomi “Rossi” e “Brambilla” (che un tempo da quelle parti la facevano da padroni) sono stati ormai superati da un cognome cinese (Hu), il “Global Rank” delle imprese più grandi del mondo ha riservato un bel po’ di sorprese a chi ha una visione un po’ superata delle dinamiche dell’Economia globale. Ne dà notizia TMnews.
Infatti, nella classifica di Forbes delle aziende più grandi del globo, la Cina ha superato le aziende statunitensi, relegate in posizione di rincalzo. E’ da qualche tempo ormai che i due colossi (USA e Cina) si fronteggiano in una sorta di “testa a testa” per vincere la gara per l’economia globale nel XXI secolo, ma non ci si aspettava certo di vedere ai primi tre posti tre banche cinesi, guidate dalla ICBC.
La prima banca americana, la JPMorgan Chase, si piazza solo al quarto posto; con altre tre istituti bancari e finanziari statunitensi nelle prime dieci. In sostanza, le banche la fanno da padrone e nella top ten si trovano solo tre “aziende tradizionali”, in particolare del settore energetico, vale a dire : Exxon Mobil, General Electric e PetroChina.
La classifica redatta da Forbes tiene conto delle vendite, dei profitti, del patrimonio e del valore di mercato. TMnews ha sottolineato che fino a qualche anno fa la General Electric faceva il bello ed il cattivo tempo, ma ora deve cedere i primi posti alle banche ed accontentarsi di piazzarsi tra le prime dieci imprese del mondo.
Per quanto riguarda il mondo del web, si segnala che Apple si piazza solo al 15° posto, Samsung al 22°, Microsoft al 32° e Google al 52°. Per quello che attiene, invece, alla aziende italiane è stato evidenziato che solo due imprese del settore energetico trovano posto nelle prime cento del “Global Rank” : l’Eni al 39° posto e l’Enel al 74°.
Moreno Morando
(18 agosto 2014)
Fisco, entrate primo semestre -0,4%
Il Mef: cala il gettito tributario e aumenta quello contributivo.
Le entrate tributarie e contributive dei primi sei mesi dell'anno sono diminuite dello 0,4% (corrispondente a -1.257 milioni), rispetto all'analogo periodo dell'anno precedente.
Lo ha comunicato il Mef precisando che «la lieve variazione registrata è la risultante di due elementi principali: la diminuzione del gettito tributario dello 0,7% (-1.510 milioni di euro) e la crescita, in termini di cassa, delle entrate contributive pari a +0,2% (+253 milioni di euro)».
FLESSIONE DELL'IRES. Le entrate tributarie, ha specificato il Ministero dell'Economia, scontano la flessione dell'Ires (-3.449 milioni di euro, pari al -26%) dovuta ai minori versamenti a saldo 2013 e in acconto 2014 effettuati da banche e assicurazioni, conseguenti alla maggiorazione dell'acconto 2013 (fissato al 130% dal decreto legge 133 del 30 novembre 2013).
Il risultato positivo delle entrate contributive sconta invece, peraltro, gli effetti delle misure di riduzione del cuneo fiscale previste per i premi assicurativi Inail dalla legge di stabilità per il 2014.
Lunedì, 18 Agosto 2014
Il Mef: cala il gettito tributario e aumenta quello contributivo.
Le entrate tributarie e contributive dei primi sei mesi dell'anno sono diminuite dello 0,4% (corrispondente a -1.257 milioni), rispetto all'analogo periodo dell'anno precedente.
Lo ha comunicato il Mef precisando che «la lieve variazione registrata è la risultante di due elementi principali: la diminuzione del gettito tributario dello 0,7% (-1.510 milioni di euro) e la crescita, in termini di cassa, delle entrate contributive pari a +0,2% (+253 milioni di euro)».
FLESSIONE DELL'IRES. Le entrate tributarie, ha specificato il Ministero dell'Economia, scontano la flessione dell'Ires (-3.449 milioni di euro, pari al -26%) dovuta ai minori versamenti a saldo 2013 e in acconto 2014 effettuati da banche e assicurazioni, conseguenti alla maggiorazione dell'acconto 2013 (fissato al 130% dal decreto legge 133 del 30 novembre 2013).
Il risultato positivo delle entrate contributive sconta invece, peraltro, gli effetti delle misure di riduzione del cuneo fiscale previste per i premi assicurativi Inail dalla legge di stabilità per il 2014.
Lunedì, 18 Agosto 2014
Le aspirazioni dei nani
“Nani sulle spalle dei giganti“. Così definiva la nostra società già nei primi anni del vecchio millennio il filosofo francese Bernardo di Chartres, che – va detto – non ha lasciato ai posteri molto più di questa metafora. Ma non c’è mai limite al peggio. E quindi, guardando ad alcuni italici “guru” del digitale ed a come la politica lo sta rappresentando in questi giorni, l’impressione che si ha è che i nani siano persino scesi dai giganti. Con il risultato che anche molti tra i più lungimiranti non riescono a guardare oltre il proprio naso. Il problema è che il naso sfiora il suolo, vista la loro patologia.
E sfiorando il suolo fa si che nel digitale non si veda altro che uno strumento di risparmio. È infatti questo il mantra di quanti – da più parti – inneggiano alle magnifiche sorti e progressive dell’Information Technology. Così, mentre in altri paesi i leader spingono i giovani verso il digitale perché leva di crescita e di innovazione, rappresentando orizzonti che del digitale fanno una chiave di sviluppo, in Italia si fa passare il concetto del digitale quale strumento per far risparmiare soldi alla PA. Cosa che, se fosse un espediente per farlo entrare nei processi della nostra macchina amministrativa e da lì andare oltre, non sarebbe nemmeno sbagliata. Ma che a forza di ripeterla come un mantra diventa così convincente da spazzar via tutto il resto e far scordare che il digitale è ben altro.
Insomma: come investire in una Ferrari ed usarla per andare a comprare il giornale all’edicola sotto casa. Ma andare a comprare il giornale in Ferrari vuol dire spendere molto per la benzina, inquinare l’ambiente e non sfruttarne le caratteristiche. In altre parole: meglio una Smart.
Lo stesso succede per il digitale. Considerarlo solo come uno strumento di cost saving rende il processo di digitalizzazione non solo meno efficace, ma addirittura potenzialmente dannoso. I risparmi che si possono conseguire sono infatti proporzionali agli investimenti. Ma investire solo per risparmiare, senza considerare tutto ciò che di nuovo, di diverso, di disruptive questo implichi è un errore. Un errore che si paga avvalorando le tesi di quei neo-luddisti che si chiedono come reimpiegare le persone che dal digitale sono escluse. Visto nell’ottica del solo risparmio il digitale che fa risparmiare è lo stesso digitale che rischia di cancellare posti di lavoro. Se a questo digitale non si affianca quello che apre nuove strade, che sviluppa nuovi contesti, che produce realmente valore, il bilancio non può che essere negativo. Ma per vedere questi vantaggi bisogna saper (e voler) guardare lontano. Per questo c’è chi – altrove – manda satelliti in orbita per portare internet ovunque, promuove un ecosistema digitale supportando realmente l’innovazione, si preoccupa di sviluppare piani industriali che non usino maker e startupper abbandonati a loro stessi solo come inconsapevoli foglie di fico di un sistema bloccato, ma come reali promotori di cambiamento.
Il futuro è di chi lo sa immaginare, diceva Enrico Mattei. E quindi o sapremo tornare ad immaginare il nostro futuro – ed il futuro è digitale, questo è indubbio – oppure, scesi dalle spalle dei giganti, non faremo altro che subire le retroazioni negative della digitalizzazione senza saperne sfruttare le opportunità.
Stefano Epifani ( docente universitario alla Sapienza )
“Nani sulle spalle dei giganti“. Così definiva la nostra società già nei primi anni del vecchio millennio il filosofo francese Bernardo di Chartres, che – va detto – non ha lasciato ai posteri molto più di questa metafora. Ma non c’è mai limite al peggio. E quindi, guardando ad alcuni italici “guru” del digitale ed a come la politica lo sta rappresentando in questi giorni, l’impressione che si ha è che i nani siano persino scesi dai giganti. Con il risultato che anche molti tra i più lungimiranti non riescono a guardare oltre il proprio naso. Il problema è che il naso sfiora il suolo, vista la loro patologia.
E sfiorando il suolo fa si che nel digitale non si veda altro che uno strumento di risparmio. È infatti questo il mantra di quanti – da più parti – inneggiano alle magnifiche sorti e progressive dell’Information Technology. Così, mentre in altri paesi i leader spingono i giovani verso il digitale perché leva di crescita e di innovazione, rappresentando orizzonti che del digitale fanno una chiave di sviluppo, in Italia si fa passare il concetto del digitale quale strumento per far risparmiare soldi alla PA. Cosa che, se fosse un espediente per farlo entrare nei processi della nostra macchina amministrativa e da lì andare oltre, non sarebbe nemmeno sbagliata. Ma che a forza di ripeterla come un mantra diventa così convincente da spazzar via tutto il resto e far scordare che il digitale è ben altro.
Insomma: come investire in una Ferrari ed usarla per andare a comprare il giornale all’edicola sotto casa. Ma andare a comprare il giornale in Ferrari vuol dire spendere molto per la benzina, inquinare l’ambiente e non sfruttarne le caratteristiche. In altre parole: meglio una Smart.
Lo stesso succede per il digitale. Considerarlo solo come uno strumento di cost saving rende il processo di digitalizzazione non solo meno efficace, ma addirittura potenzialmente dannoso. I risparmi che si possono conseguire sono infatti proporzionali agli investimenti. Ma investire solo per risparmiare, senza considerare tutto ciò che di nuovo, di diverso, di disruptive questo implichi è un errore. Un errore che si paga avvalorando le tesi di quei neo-luddisti che si chiedono come reimpiegare le persone che dal digitale sono escluse. Visto nell’ottica del solo risparmio il digitale che fa risparmiare è lo stesso digitale che rischia di cancellare posti di lavoro. Se a questo digitale non si affianca quello che apre nuove strade, che sviluppa nuovi contesti, che produce realmente valore, il bilancio non può che essere negativo. Ma per vedere questi vantaggi bisogna saper (e voler) guardare lontano. Per questo c’è chi – altrove – manda satelliti in orbita per portare internet ovunque, promuove un ecosistema digitale supportando realmente l’innovazione, si preoccupa di sviluppare piani industriali che non usino maker e startupper abbandonati a loro stessi solo come inconsapevoli foglie di fico di un sistema bloccato, ma come reali promotori di cambiamento.
Il futuro è di chi lo sa immaginare, diceva Enrico Mattei. E quindi o sapremo tornare ad immaginare il nostro futuro – ed il futuro è digitale, questo è indubbio – oppure, scesi dalle spalle dei giganti, non faremo altro che subire le retroazioni negative della digitalizzazione senza saperne sfruttare le opportunità.
Stefano Epifani ( docente universitario alla Sapienza )
giovedì 21 agosto 2014
Putin vs Obama : “questa è la Terza Guerra Mondiale”
Il giornalista Giulietto Chiesa ha fatto il punto della situazione nel mondo oggi. Ha parlato in particolare di Ucraina, ma anche del conflitto tra Israele e Palestina e del nascente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Il conflitto in Ucraina, che vede impegnati il nuovo governo di Kiev e i ribelli filorussi, è però quello centrale secondo Chiesa, mentre gli altri, per quanto stiano mietendo migliaia di vittime, sono secondari. Si tratta di una guerra, secondo lo scrittore, che viene fatta grazie alla propaganda dei media occidentali:
“Siamo di fronte ad una propaganda straordinaria condotta dal governo degli Stati Uniti d’America e della Gran Bretagna con l’aiuto, dice Roberts, dei ministeri della propaganda noti come i media occidentali, cioè quelli che vedete tutti i giorni. Una vera e propria isteria collettiva attorno all’Ucraina, non solo, ma innanzitutto attorno all’Ucraina, presentata come un paese sotto attacco della Russia, mentre sta facendo una vera e propria guerra contro la popolazione civile del suo proprio territorio. [...] Una guerra che ha già provocato più di 1.000 vittime civili e probabilmente due o 2.500 morti tra militari e ribelli”, ha detto Chiesa citando Paul Craig Roberts
E ha aggiunto: “Poroshenko, presidente dell’Ucraina, capo di un paese in totale bancarotta, comunica che una volta abbattuta la resistenza del Donbass, l’Ucraina andrà alla guerra e alla riconquista della Crimea. Vuol dire che annuncia una guerra aperta contro la Russia”. Perciò si chiede Chiesa “come può il presidente dell’Ucraina dire queste cose, in queste condizioni?” E la spiegazione è che è “incoraggiato dal suo protettore e padrone degli Stati Uniti d’America“.
E ancora: “L’America di Obama è all’offensiva e gioca a sbancare Putin e la Russia tutta intera. Questo non è un nuovo, diciamo avvitamento della Guerra Fredda, questa è la Terza Guerra Mondiale. Tutti i segni ce lo dicono. [...] L’attacco è concentrico, l’Europa è stata costretta in varia forma a sottostare, sebbene sia decisamente contro gli interessi europei. L’interscambio Europa-Russia è di oltre 420 miliardi di dollari, quello con gli Stati Uniti è inesistente, o, perlomeno, una piccola percentuale”.
Il giornalista Giulietto Chiesa ha fatto il punto della situazione nel mondo oggi. Ha parlato in particolare di Ucraina, ma anche del conflitto tra Israele e Palestina e del nascente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Il conflitto in Ucraina, che vede impegnati il nuovo governo di Kiev e i ribelli filorussi, è però quello centrale secondo Chiesa, mentre gli altri, per quanto stiano mietendo migliaia di vittime, sono secondari. Si tratta di una guerra, secondo lo scrittore, che viene fatta grazie alla propaganda dei media occidentali:
“Siamo di fronte ad una propaganda straordinaria condotta dal governo degli Stati Uniti d’America e della Gran Bretagna con l’aiuto, dice Roberts, dei ministeri della propaganda noti come i media occidentali, cioè quelli che vedete tutti i giorni. Una vera e propria isteria collettiva attorno all’Ucraina, non solo, ma innanzitutto attorno all’Ucraina, presentata come un paese sotto attacco della Russia, mentre sta facendo una vera e propria guerra contro la popolazione civile del suo proprio territorio. [...] Una guerra che ha già provocato più di 1.000 vittime civili e probabilmente due o 2.500 morti tra militari e ribelli”, ha detto Chiesa citando Paul Craig Roberts
E ha aggiunto: “Poroshenko, presidente dell’Ucraina, capo di un paese in totale bancarotta, comunica che una volta abbattuta la resistenza del Donbass, l’Ucraina andrà alla guerra e alla riconquista della Crimea. Vuol dire che annuncia una guerra aperta contro la Russia”. Perciò si chiede Chiesa “come può il presidente dell’Ucraina dire queste cose, in queste condizioni?” E la spiegazione è che è “incoraggiato dal suo protettore e padrone degli Stati Uniti d’America“.
E ancora: “L’America di Obama è all’offensiva e gioca a sbancare Putin e la Russia tutta intera. Questo non è un nuovo, diciamo avvitamento della Guerra Fredda, questa è la Terza Guerra Mondiale. Tutti i segni ce lo dicono. [...] L’attacco è concentrico, l’Europa è stata costretta in varia forma a sottostare, sebbene sia decisamente contro gli interessi europei. L’interscambio Europa-Russia è di oltre 420 miliardi di dollari, quello con gli Stati Uniti è inesistente, o, perlomeno, una piccola percentuale”.
Putin e i Paesi Brics fondano una Banca che sotterra Bretton Woods e rivoluziona la governance mondiale. Sui giornaloni, neppure una riga
di Tino Oldani
Ieri i giornaloni non hanno dedicato neppure una riga a una notizia ben più importante della bocciatura europea di Federica Mogherini. Mi riferisco al vertice dei capi di Stato e di governo dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che martedì 16 luglio si è svolto a Fortaleza (Brasile), ed ha assunto una decisione storica, destinata a rivoluzionare la governance economica mondiale. Definire storica la decisione presa a Fortaleza non credo sia esagerato, poiché avrà conseguenze paragonabili soltanto all'Accordo di Bretton Woods (1944), che poco prima della fine della seconda guerra mondiale disegnò il nuovo ordinamento monetario internazionale, centrato sulla supremazia del dollaro, e su due istituzioni fortemente influenzate dagli Stati Uniti, quali sono il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale.
Da anni i Paesi Brics, che insieme hanno una popolazione di quasi 3 miliardi e un pil in continua crescita, premevano per una nuova Bretton Woods, al fine di avere un peso maggiore nella governance mondiale e porre un argine alla supremazia di un dollaro sempre più instabile, e perciò sempre meno affidabile come moneta di riserva e per gli scambi commerciali. Le rivendicazioni dei Paesi Brics sono state bene illustrate dall'economista Paolo Savona in un saggio di qualche anno fa (“Il ritorno dello Stato padrone. I fondi sovrani e il grande negoziato globale”; Rubbettino), che ora si sta rivelando profetico.
Benché consapevoli che la loro leadership mondiale fosse declinante, gli Stati Uniti di Barack Obama hanno fatto finora orecchio da mercante di fronte a tutte le richieste di una nuova Bretton Woods, ignorando i suggerimenti degli economisti più attenti e quasi irridendo la pretesa dei Paesi emergenti di contare di più. Ai governi che hanno provato a sollevare il problema dell'instabilità del dollaro, ricorda Savona, il Tesoro Usa ha sempre risposto con uno slogan a dir poco arrogante: “Il dollaro è la nostra moneta, ma un vostro problema”. Non minore fortuna hanno avuto le richieste di avere un peso maggiore nelle istituzioni monetarie mondiali. La Cina, per esempio, ha una quota di voto nel Fmi del 4,86%, circa un quarto di quella Usa (16,77%), benché le due economie ormai si equivalgano. Non solo. La quota di voto della Cina è inferiore a quella della Germania (5,88%), e di poco superiore a quella dell'Italia (3,66%). Gli altri Paesi Brics sono ancora più sottovalutati della Cina nel Fmi: la Russia ha il 3,16%, il Brasile il 2,34%, l'India l'1,88%, il Sudafrica lo 0,54%.
Stanchi di essere sotto-rappresentati, dopo anni di trattative deludenti, i paesi Brics hanno deciso di prendere le distanze dal Fmi e dalla Banca Mondiale con un atto formale, che segna l'inizio di un nuovo ordinamento mondiale. Tale atto è la costituzione della Banca Brics, articolata nella New Development Bank (NDB) e in un Fondo di riserva monetario denominato Accordo sui Fondi di Riserva (Contingent Reserve Arrangement, CRA). Il capitale della Banca Brics sarà di 50 miliardi di dollari, finanziato in parti eguali dai cinque Paesi fondatori. Avrà la sede a Shangai (Cina), il primo presidente del Consiglio dei governatori sarà russo, il primo presidente del Consiglio di amministrazione sarà brasiliano, mentre toccherà a un indiano il ruolo di primo presidente della Banca, e il Sudafrica avrà una sede regionale sul proprio territorio. Quanto al Fondo di riserva monetaria, avrà un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, di cui 41 versati dalla Cina, 5 dal Sudafrica, mentre Russia, India e Brasile ne verseranno 18 ciascuno. La Banca sarà operativa a partire dal prossimo anno. Quanto al dollaro, per ora moneta principe anche della nuova Banca Brics, sarà gradualmente sostituito con altre valute negli interventi che di volta in volta saranno messi in campo per aiutare i Paesi con problemi di liquidità.
Il leader russo Vladimir Putin, che ha partecipato al vertice di Fortaleza, non ha mancato di sottolineare l'evento in chiave politica: “L'istituzione della Banca per lo sviluppo dei Paesi Brics permette ai suoi soci di essere più indipendenti dalla politica finanziaria dei Paesi occidentali. E fa parte di un sistema di misure che potrebbe aiutare a prevenire le pressioni sui Paesi che non sono d'accordo con alcune decisioni di politica estera degli Stati Uniti e dei loro alleati”. Chiunque, perfino la Mogherini, può capire il duplice significato del messaggio di Putin: la Banca Brics rappresenta non solo di una rottura della governance monetaria creata 70 anni fa a Bretton Woods, ma è anche una risposta alle sanzioni economiche che gli Stati Uniti e l'Unione europea hanno imposto alla Russia, a seguito delle vicende in Ucraina. Putin uno, Obama zero.
La nuova Banca (la cui prima idea si deve all'India) sarà aperta all'adesione di altri Paesi delle Nazioni Unite, ma la quota dei Paesi Brics non potrà scendere sotto il 55%. Lo scopo della nuova istituzione, recita il comunicato ufficiale, “è di rafforzare, sulla base di sani principi bancari, la cooperazione tra i Paesi Brics, integrare gli sforzi delle istituzioni finanziarie multilaterali e regionali per lo sviluppo globale, contribuendo a conseguire l'obiettivo di una crescita forte, sostenibile ed equilibrata”. Di fatto, è la nascita di una nuova Banca mondiale, dotata di ampie riserve, che si pone come alternativa al Fmi e alla Banca Mondiale, e crea le premesse di una nuova architettura finanziaria globale, dove gli Stati Uniti non potranno più fare il bello e il cattivo tempo. Un evento epocale, che è sui siti di tutto il mondo, tranne che sui giornaloni di casa nostra, tutti presi dalle sorti europee della Mogherini e dalla prima sonora sconfitta di Matteo Renzi. In fondo, una conferma: servilismo e sconfitte vanno sempre a braccetto.
© Riproduzione riservata
di Tino Oldani
Ieri i giornaloni non hanno dedicato neppure una riga a una notizia ben più importante della bocciatura europea di Federica Mogherini. Mi riferisco al vertice dei capi di Stato e di governo dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che martedì 16 luglio si è svolto a Fortaleza (Brasile), ed ha assunto una decisione storica, destinata a rivoluzionare la governance economica mondiale. Definire storica la decisione presa a Fortaleza non credo sia esagerato, poiché avrà conseguenze paragonabili soltanto all'Accordo di Bretton Woods (1944), che poco prima della fine della seconda guerra mondiale disegnò il nuovo ordinamento monetario internazionale, centrato sulla supremazia del dollaro, e su due istituzioni fortemente influenzate dagli Stati Uniti, quali sono il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale.
Da anni i Paesi Brics, che insieme hanno una popolazione di quasi 3 miliardi e un pil in continua crescita, premevano per una nuova Bretton Woods, al fine di avere un peso maggiore nella governance mondiale e porre un argine alla supremazia di un dollaro sempre più instabile, e perciò sempre meno affidabile come moneta di riserva e per gli scambi commerciali. Le rivendicazioni dei Paesi Brics sono state bene illustrate dall'economista Paolo Savona in un saggio di qualche anno fa (“Il ritorno dello Stato padrone. I fondi sovrani e il grande negoziato globale”; Rubbettino), che ora si sta rivelando profetico.
Benché consapevoli che la loro leadership mondiale fosse declinante, gli Stati Uniti di Barack Obama hanno fatto finora orecchio da mercante di fronte a tutte le richieste di una nuova Bretton Woods, ignorando i suggerimenti degli economisti più attenti e quasi irridendo la pretesa dei Paesi emergenti di contare di più. Ai governi che hanno provato a sollevare il problema dell'instabilità del dollaro, ricorda Savona, il Tesoro Usa ha sempre risposto con uno slogan a dir poco arrogante: “Il dollaro è la nostra moneta, ma un vostro problema”. Non minore fortuna hanno avuto le richieste di avere un peso maggiore nelle istituzioni monetarie mondiali. La Cina, per esempio, ha una quota di voto nel Fmi del 4,86%, circa un quarto di quella Usa (16,77%), benché le due economie ormai si equivalgano. Non solo. La quota di voto della Cina è inferiore a quella della Germania (5,88%), e di poco superiore a quella dell'Italia (3,66%). Gli altri Paesi Brics sono ancora più sottovalutati della Cina nel Fmi: la Russia ha il 3,16%, il Brasile il 2,34%, l'India l'1,88%, il Sudafrica lo 0,54%.
Stanchi di essere sotto-rappresentati, dopo anni di trattative deludenti, i paesi Brics hanno deciso di prendere le distanze dal Fmi e dalla Banca Mondiale con un atto formale, che segna l'inizio di un nuovo ordinamento mondiale. Tale atto è la costituzione della Banca Brics, articolata nella New Development Bank (NDB) e in un Fondo di riserva monetario denominato Accordo sui Fondi di Riserva (Contingent Reserve Arrangement, CRA). Il capitale della Banca Brics sarà di 50 miliardi di dollari, finanziato in parti eguali dai cinque Paesi fondatori. Avrà la sede a Shangai (Cina), il primo presidente del Consiglio dei governatori sarà russo, il primo presidente del Consiglio di amministrazione sarà brasiliano, mentre toccherà a un indiano il ruolo di primo presidente della Banca, e il Sudafrica avrà una sede regionale sul proprio territorio. Quanto al Fondo di riserva monetaria, avrà un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, di cui 41 versati dalla Cina, 5 dal Sudafrica, mentre Russia, India e Brasile ne verseranno 18 ciascuno. La Banca sarà operativa a partire dal prossimo anno. Quanto al dollaro, per ora moneta principe anche della nuova Banca Brics, sarà gradualmente sostituito con altre valute negli interventi che di volta in volta saranno messi in campo per aiutare i Paesi con problemi di liquidità.
Il leader russo Vladimir Putin, che ha partecipato al vertice di Fortaleza, non ha mancato di sottolineare l'evento in chiave politica: “L'istituzione della Banca per lo sviluppo dei Paesi Brics permette ai suoi soci di essere più indipendenti dalla politica finanziaria dei Paesi occidentali. E fa parte di un sistema di misure che potrebbe aiutare a prevenire le pressioni sui Paesi che non sono d'accordo con alcune decisioni di politica estera degli Stati Uniti e dei loro alleati”. Chiunque, perfino la Mogherini, può capire il duplice significato del messaggio di Putin: la Banca Brics rappresenta non solo di una rottura della governance monetaria creata 70 anni fa a Bretton Woods, ma è anche una risposta alle sanzioni economiche che gli Stati Uniti e l'Unione europea hanno imposto alla Russia, a seguito delle vicende in Ucraina. Putin uno, Obama zero.
La nuova Banca (la cui prima idea si deve all'India) sarà aperta all'adesione di altri Paesi delle Nazioni Unite, ma la quota dei Paesi Brics non potrà scendere sotto il 55%. Lo scopo della nuova istituzione, recita il comunicato ufficiale, “è di rafforzare, sulla base di sani principi bancari, la cooperazione tra i Paesi Brics, integrare gli sforzi delle istituzioni finanziarie multilaterali e regionali per lo sviluppo globale, contribuendo a conseguire l'obiettivo di una crescita forte, sostenibile ed equilibrata”. Di fatto, è la nascita di una nuova Banca mondiale, dotata di ampie riserve, che si pone come alternativa al Fmi e alla Banca Mondiale, e crea le premesse di una nuova architettura finanziaria globale, dove gli Stati Uniti non potranno più fare il bello e il cattivo tempo. Un evento epocale, che è sui siti di tutto il mondo, tranne che sui giornaloni di casa nostra, tutti presi dalle sorti europee della Mogherini e dalla prima sonora sconfitta di Matteo Renzi. In fondo, una conferma: servilismo e sconfitte vanno sempre a braccetto.
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De Gaulle disse che l'Italia non è un paese povero ma un povero paese
Una volta Charles De Gaulle disse che l'Italia non era un Paese povero, ma un povero Paese. Aveva ragione. Non stiamo certo peggio di cinquant'anni fa, ma abbiamo un disperato bisogno di riforme che sblocchino paralisi istituzionale, immobilismo sociale, declino manifatturiero. Ma, invocate da tutti e quasi mai realizzate, le riforme restano una specie di miraggio. Più sono necessarie, più forti sono le resistenze. Il salvataggio di Alitalia ne è un clamoroso esempio.
Prima il rifiuto dissennato di integrare il vettore di bandiera in un player del trasporto aereo europeo o mondiale. Poi, puntuale, il disastro. Un piano industriale demenziale, sbilanciato sulle rotte interne, disintegrato dalla concorrenza dell'alta velocità ferroviaria. Ammortizzatori sociali, pagati dal contribuente, così generosi da fare invidia al sultano del Brunei. Un debito accumulato di oltre un miliardo di euro. Ora, posso anche capire che Silvio Berlusconi e Corrado Passera, i grandi registi dell'operazione «Air-France e Klm no pasarán», facciano finta di niente. Il primo ha i guai che conosciamo. Il secondo è impegnato a progettare questa volta il salvataggio dell'Italia (senza ali). Ma i sindacati sono ancora in campo, e stanno negoziando la partnership con Ethiad.
Nel 2008 i sindacati sono stati gli ascari di quella operazione. Non hanno nulla da rimproverarsi? La Cgil si è sfilata dall'accordo in nome della cara, vecchia cassa integrazione, per tenere incollati all'azienda tutti i dipendenti, magari in eterno. Mentre, come ha osservato Pietro Ichino, se in esso c'è una novità positiva è proprio il previsto utilizzo del contratto di ricollocazione. Probabilmente i leader confederali la pensano come Machiavelli, quando ammoniva che «non c'è niente di più difficile da condurre, né più dubbioso di successo, né più dannoso da gestire, dell'iniziare un nuovo ordine di cose».
Dal bloc notes di michele magno
Una volta Charles De Gaulle disse che l'Italia non era un Paese povero, ma un povero Paese. Aveva ragione. Non stiamo certo peggio di cinquant'anni fa, ma abbiamo un disperato bisogno di riforme che sblocchino paralisi istituzionale, immobilismo sociale, declino manifatturiero. Ma, invocate da tutti e quasi mai realizzate, le riforme restano una specie di miraggio. Più sono necessarie, più forti sono le resistenze. Il salvataggio di Alitalia ne è un clamoroso esempio.
Prima il rifiuto dissennato di integrare il vettore di bandiera in un player del trasporto aereo europeo o mondiale. Poi, puntuale, il disastro. Un piano industriale demenziale, sbilanciato sulle rotte interne, disintegrato dalla concorrenza dell'alta velocità ferroviaria. Ammortizzatori sociali, pagati dal contribuente, così generosi da fare invidia al sultano del Brunei. Un debito accumulato di oltre un miliardo di euro. Ora, posso anche capire che Silvio Berlusconi e Corrado Passera, i grandi registi dell'operazione «Air-France e Klm no pasarán», facciano finta di niente. Il primo ha i guai che conosciamo. Il secondo è impegnato a progettare questa volta il salvataggio dell'Italia (senza ali). Ma i sindacati sono ancora in campo, e stanno negoziando la partnership con Ethiad.
Nel 2008 i sindacati sono stati gli ascari di quella operazione. Non hanno nulla da rimproverarsi? La Cgil si è sfilata dall'accordo in nome della cara, vecchia cassa integrazione, per tenere incollati all'azienda tutti i dipendenti, magari in eterno. Mentre, come ha osservato Pietro Ichino, se in esso c'è una novità positiva è proprio il previsto utilizzo del contratto di ricollocazione. Probabilmente i leader confederali la pensano come Machiavelli, quando ammoniva che «non c'è niente di più difficile da condurre, né più dubbioso di successo, né più dannoso da gestire, dell'iniziare un nuovo ordine di cose».
Dal bloc notes di michele magno
Anche Wall Street scommette sulla Terza Guerra Mondiale
Scritto il 17/8/14 da Libre Associazioni di idee
Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Tymoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma? Perché infine rovesciare Yanukovic quando lo stesso quarto e ultimo presidente dell’Ucraina aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Nouriel RoubiniShell? La bellezza di quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia. Insomma: Yanukovic – presentato come «l’uomo di Mosca» da tutti i media occidentali – non era poi quel grande amico di Putin. Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento giugulatorio di “associazione” all’Unione Europea? Ma fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte assai segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato imposto, con le buone o con le cattive. No, tutti questi interrogativi non avevano risposte adeguate. Doveva esserci qualcos’altro. La fretta con cui Washington aveva premuto, e Varsavia aveva agito ai suoi ordini, indicava qualche altra impellente necessità. A me fu subito chiaro che il golpe – non a caso un golpe con le stigmate naziste così visibili – era diretto non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon, tramite la esecutrice Victoria Nuland, volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale. Ma perché la fretta? Perché accelerare lo scontro e portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino? Era, in fondo, uno scenario che io stesso avevo previsto sarebbe accaduto. Ma assistevo a un’improvvisa e drammatica accelerazione. Doveva esserci qualcos’altro a spiegare la fretta. E le dimensioni della rottura che si stava creando. Non si trattava di una crisi regionale, non un episodio Macelleria di civili nell'Est dell'Ucrainapasseggero. Le potenziali ripercussioni erano evidenti: uno scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.
Bisognava spiegare il senso e le ragioni dell’accelerazione. Io non sono un economista (lo ripeto sempre, per non eccitare le rimostranze degli scopritori dell’aria calda). Non sono neanche un esperto dei sotterfugi della finanza mondiale. Credo poco o nulla ai numeri che arrivano da quella parte, convinto ormai da tempo che sono in gran parte falsi o comunque molto manipolati. Ma tutto il nervosismo che da tempo leggo nei commenti di coloro che dicono d’intendersene (anche perché su quei trucchi ci hanno vissuto e ci vivono), mi ha fatto pensare che qualcosa non funzionava nei ragionamenti sopra esposti. Così mi sono trovato, con qualche sorpresa, in buona compagnia a parlare di “inizio della Terza Guerra Mondiale”. Devo prima di tutto esprimere i miei ringraziamenti a Roberto Savio, ideatore di quel fondamentale bollettino che si chiama “Other News”, con sottotitolo esplicativo: “L’informazione che i mercati eliminano”. Il primo di agosto, “Other News” ha pubblicato una rassegna che riprende numerosi spunti dal “Washington’s Blog”, così intitolata: “Un gruppo di esperti finanziari ai massimi livelli afferma che la Terza Guerra Mondiale è in arrivo, a meno che non la fermiamo”. Saccheggerò questa rassegna, che mi pare estremamente istruttiva.
In primo luogo i nomi sono effettivamente grossi calibri, a giudicare dalla frequenza con cui i mercati li citano. Prendiamo per esempio Nouriel Rubini, che a gennaio di quest’anno twittava da Davos: «Molti oratori qui paragonano il 2014 con il 1914, quando la Prima Guerra Mondiale esplose e nessuno se l’aspettava. Siamo di fronte a un cigno nero nella forma di una guerra tra Cina e Giappone?» Fuochino. Ma gli fa eco Kile Bass, multimiliardario manager di hedge funds, che prima cita un «influente analista cinese» e poi lo stesso premier giapponese Abe, che «non escludono un confronto militare tra Cina e Giappone». Aggiungendo previsioni molto ben descritte, che in bocca a un gestore finanziario di quel calibro non possono essere trascurate. «Miliardi di dollari di depositi bancari saranno ristrutturati – ci informa Kile Bass – e milioni di prudenti risparmiatori finanziari perderanno grandi percentuali del loro reale potere d’acquisto esattamente nel momento sbagliato delle loro vite [sempre che ci sia un momento giusto per perdere i propri averi, ndr]. Neanche questa volta il mondo finirà, ma la struttura sociale delle nazioni influenti sarà posta in acuta tensione e in qualche caso fatta a pezzi. (…) Noi David Stockmancrediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza dell’attuale situazione economica globale».
Gli fa eco l’ex capo dell’Office for Management and Budget ai tempi di Reagan, David Stockman. Anche per lui lo scontro in atto tra America e Russia condurrà alla terza guerra mondiale. Un po’ più generico sulle modalità, ma convinto anche lui che si sta andando verso «una grossa guerra» (“a major war”) è l’ex analista tecnico di Goldman Sachs, Charles Nenner, che, ora in proprio, vanta tra i suoi clienti numerosi importanti hedge funds, banche, e un certo numero di ricchissimi investitori internazionali. Altrettanto, con qualche variazione, pensano investitori americani di primo piano come James Dines e Marc Faber. Quest’ultimo afferma apertamente che il governo americano comincerà nuove guerre in risposta alla crisi economica in atto. «La prossima cosa che il governo farà per distrarre l’attenzione della gente dalle cattive condizioni economiche – scrive Marc Faber – sarà di cominciare una qualche guerra da qualche parte».
Tutto chiaro, ma allora come mai i giornali e le tv ci dicono che l’America va fortissimo? Pochi giorni fa Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – dice la stessa cosa: «Occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico». Gli ultimi due pezzi che ha scritto li ha intitolati così: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”. Non è ben chiaro se tutti questi profeti stiano enunciando prognosi sincere o siano semplicemente festeggiando in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettano dalla guerra, essendo evidente, da sempre, che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. Ma l’insistenza Charles Nennercon cui il tema viene sollevato indica comunque che il puzzo di bruciato tutti costoro lo sentono in anticipo.
Altri, per esempio la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, osservano che il mondo è attraversato da una «guerra delle valute» che sta diventando globale, cioè di tutti contro tutti. Da non dimenticare che la seconda guerra mondiale arrivò dopo una serie violenta di svalutazioni competitive. Sta accadendo ora la stessa cosa, quando le nazioni svalutano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni. E molti si stanno accorgendo che la nuova banca, creata dal Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituisce una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avviene in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa. Come scrive Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’è il rischio che gli Stati Uniti si trovino «trascinati» in «guerre asimmetriche» di valute, in grado di accrescere le incertezze globali. È evidente che Rickards sta dalla parte americana. Ma, se il Pentagono – e non la Federal Reserve – organizza questo tipo di “giochi”, vuol dire che ci siamo già dentro fino al collo e che il loro carattere militare è fuori discussione.
Del resto (questa volta parla il multimiliardario Hugo Salinas Price) «sono molti a chiedersi quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro». Altri mettono il dito sulla crescente scarsità di risorse, soprattutto energetiche. Altri ancora guardano alla Cina come a un avversario bisbetico e sempre più incontrollabile – forse il protagonista di quella guerra asimmetrica citata da Jim Rickards. Gerald Celente, autore di accurate previsioni finanziarie e geopolitiche da molti anni, va anche lui seccamente alla conclusione: «Una terza guerra mondiale comincerà presto». Jim Rogers, un altro investitore internazionale miliardario, punta gli occhi sull’Europa: «Se si continua a salvare uno Stato dietro l’altro si finirà in un’altra guerra mondiale». Dunque continuiamo a strozzare i popoli europei, con l’obiettivo di evitare la guerra. Un pacifismo molto sospetto, ma comunque allarmato. Ovviamente sarà utile Gerald Celenteguardarsi da certi “pacifisti”. Ma questa rassegna è utile per capire che l’allarme è in aumento.
La Cina, senza fare troppo rumore, fa provvista di risorse, energetiche e territoriali, solo che invece di mandare le proprie cannoniere (non è il tempo), quelle risorse se le compra, con i denari del debito americano. Putin deve fronteggiare la prima offensiva e non ha tempo da perdere. Tra l’altro un tribunale olandese, senza alcuna autorità o potere, ha decretato che la Russia dovrà pagare 50 miliardi di dollari, più gl’interessi, alla Yukos, cioè a quel bandito di Mikhail Khodorkovskij che la Russia ha scarcerato qualche mese fa con un gesto di distensione verso l’Europa (si noti che il tribunale sedeva nello stesso paese che aveva avuto il più alto numero di vittime nell’abbattimento del Boeing delle linee aeree malaysiane). Sarà stato un caso? Comunque, uno dei più vicini consiglieri di Putin, di fronte alla domanda “cosa farà la Russia di fronte a quella sentenza?”, ha risposto stringendosi nelle spalle: «C’è una Giulietto Chiesaguerra alle porte in Europa. Lei pensa realmente che una tale decisione abbia qualche importanza?».
Giuridicamente non ce l’ha, ma sarà usata dai centri di comando dell’Occidente per colpire i beni russi all’estero, per sequestrare e congelare conti bancari, proprietà azionarie. Ecco una guerra asimmetrica appena iniziata senza essere stata nemmeno dichiarata. Un influente settimanale americano ha dedicato la sua copertina a Vladimir Putin, con questo commento: “Il Paria”. Un titolo che è, invece, una dichiarazione di guerra. Solo che non è stata pronunciata dal Dipartimento di Stato, bensì dal “ministero della propaganda”, cioè dai media occidentali. È stato Paul Craig Roberts a usare questa definizione in un articolo di qualche giorno fa. Chi è Paul Craig Roberts? È stato Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo. L’articolo era intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).
(Giulietto Chiesa, “Chi parla di Terza Guerra Mondiale?”, da “Megachip” del 6 agosto 2014).
Scritto il 17/8/14 da Libre Associazioni di idee
Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Tymoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma? Perché infine rovesciare Yanukovic quando lo stesso quarto e ultimo presidente dell’Ucraina aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Nouriel RoubiniShell? La bellezza di quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia. Insomma: Yanukovic – presentato come «l’uomo di Mosca» da tutti i media occidentali – non era poi quel grande amico di Putin. Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento giugulatorio di “associazione” all’Unione Europea? Ma fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte assai segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato imposto, con le buone o con le cattive. No, tutti questi interrogativi non avevano risposte adeguate. Doveva esserci qualcos’altro. La fretta con cui Washington aveva premuto, e Varsavia aveva agito ai suoi ordini, indicava qualche altra impellente necessità. A me fu subito chiaro che il golpe – non a caso un golpe con le stigmate naziste così visibili – era diretto non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon, tramite la esecutrice Victoria Nuland, volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale. Ma perché la fretta? Perché accelerare lo scontro e portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino? Era, in fondo, uno scenario che io stesso avevo previsto sarebbe accaduto. Ma assistevo a un’improvvisa e drammatica accelerazione. Doveva esserci qualcos’altro a spiegare la fretta. E le dimensioni della rottura che si stava creando. Non si trattava di una crisi regionale, non un episodio Macelleria di civili nell'Est dell'Ucrainapasseggero. Le potenziali ripercussioni erano evidenti: uno scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.
Bisognava spiegare il senso e le ragioni dell’accelerazione. Io non sono un economista (lo ripeto sempre, per non eccitare le rimostranze degli scopritori dell’aria calda). Non sono neanche un esperto dei sotterfugi della finanza mondiale. Credo poco o nulla ai numeri che arrivano da quella parte, convinto ormai da tempo che sono in gran parte falsi o comunque molto manipolati. Ma tutto il nervosismo che da tempo leggo nei commenti di coloro che dicono d’intendersene (anche perché su quei trucchi ci hanno vissuto e ci vivono), mi ha fatto pensare che qualcosa non funzionava nei ragionamenti sopra esposti. Così mi sono trovato, con qualche sorpresa, in buona compagnia a parlare di “inizio della Terza Guerra Mondiale”. Devo prima di tutto esprimere i miei ringraziamenti a Roberto Savio, ideatore di quel fondamentale bollettino che si chiama “Other News”, con sottotitolo esplicativo: “L’informazione che i mercati eliminano”. Il primo di agosto, “Other News” ha pubblicato una rassegna che riprende numerosi spunti dal “Washington’s Blog”, così intitolata: “Un gruppo di esperti finanziari ai massimi livelli afferma che la Terza Guerra Mondiale è in arrivo, a meno che non la fermiamo”. Saccheggerò questa rassegna, che mi pare estremamente istruttiva.
In primo luogo i nomi sono effettivamente grossi calibri, a giudicare dalla frequenza con cui i mercati li citano. Prendiamo per esempio Nouriel Rubini, che a gennaio di quest’anno twittava da Davos: «Molti oratori qui paragonano il 2014 con il 1914, quando la Prima Guerra Mondiale esplose e nessuno se l’aspettava. Siamo di fronte a un cigno nero nella forma di una guerra tra Cina e Giappone?» Fuochino. Ma gli fa eco Kile Bass, multimiliardario manager di hedge funds, che prima cita un «influente analista cinese» e poi lo stesso premier giapponese Abe, che «non escludono un confronto militare tra Cina e Giappone». Aggiungendo previsioni molto ben descritte, che in bocca a un gestore finanziario di quel calibro non possono essere trascurate. «Miliardi di dollari di depositi bancari saranno ristrutturati – ci informa Kile Bass – e milioni di prudenti risparmiatori finanziari perderanno grandi percentuali del loro reale potere d’acquisto esattamente nel momento sbagliato delle loro vite [sempre che ci sia un momento giusto per perdere i propri averi, ndr]. Neanche questa volta il mondo finirà, ma la struttura sociale delle nazioni influenti sarà posta in acuta tensione e in qualche caso fatta a pezzi. (…) Noi David Stockmancrediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza dell’attuale situazione economica globale».
Gli fa eco l’ex capo dell’Office for Management and Budget ai tempi di Reagan, David Stockman. Anche per lui lo scontro in atto tra America e Russia condurrà alla terza guerra mondiale. Un po’ più generico sulle modalità, ma convinto anche lui che si sta andando verso «una grossa guerra» (“a major war”) è l’ex analista tecnico di Goldman Sachs, Charles Nenner, che, ora in proprio, vanta tra i suoi clienti numerosi importanti hedge funds, banche, e un certo numero di ricchissimi investitori internazionali. Altrettanto, con qualche variazione, pensano investitori americani di primo piano come James Dines e Marc Faber. Quest’ultimo afferma apertamente che il governo americano comincerà nuove guerre in risposta alla crisi economica in atto. «La prossima cosa che il governo farà per distrarre l’attenzione della gente dalle cattive condizioni economiche – scrive Marc Faber – sarà di cominciare una qualche guerra da qualche parte».
Tutto chiaro, ma allora come mai i giornali e le tv ci dicono che l’America va fortissimo? Pochi giorni fa Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – dice la stessa cosa: «Occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico». Gli ultimi due pezzi che ha scritto li ha intitolati così: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”. Non è ben chiaro se tutti questi profeti stiano enunciando prognosi sincere o siano semplicemente festeggiando in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettano dalla guerra, essendo evidente, da sempre, che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. Ma l’insistenza Charles Nennercon cui il tema viene sollevato indica comunque che il puzzo di bruciato tutti costoro lo sentono in anticipo.
Altri, per esempio la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, osservano che il mondo è attraversato da una «guerra delle valute» che sta diventando globale, cioè di tutti contro tutti. Da non dimenticare che la seconda guerra mondiale arrivò dopo una serie violenta di svalutazioni competitive. Sta accadendo ora la stessa cosa, quando le nazioni svalutano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni. E molti si stanno accorgendo che la nuova banca, creata dal Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituisce una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avviene in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa. Come scrive Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’è il rischio che gli Stati Uniti si trovino «trascinati» in «guerre asimmetriche» di valute, in grado di accrescere le incertezze globali. È evidente che Rickards sta dalla parte americana. Ma, se il Pentagono – e non la Federal Reserve – organizza questo tipo di “giochi”, vuol dire che ci siamo già dentro fino al collo e che il loro carattere militare è fuori discussione.
Del resto (questa volta parla il multimiliardario Hugo Salinas Price) «sono molti a chiedersi quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro». Altri mettono il dito sulla crescente scarsità di risorse, soprattutto energetiche. Altri ancora guardano alla Cina come a un avversario bisbetico e sempre più incontrollabile – forse il protagonista di quella guerra asimmetrica citata da Jim Rickards. Gerald Celente, autore di accurate previsioni finanziarie e geopolitiche da molti anni, va anche lui seccamente alla conclusione: «Una terza guerra mondiale comincerà presto». Jim Rogers, un altro investitore internazionale miliardario, punta gli occhi sull’Europa: «Se si continua a salvare uno Stato dietro l’altro si finirà in un’altra guerra mondiale». Dunque continuiamo a strozzare i popoli europei, con l’obiettivo di evitare la guerra. Un pacifismo molto sospetto, ma comunque allarmato. Ovviamente sarà utile Gerald Celenteguardarsi da certi “pacifisti”. Ma questa rassegna è utile per capire che l’allarme è in aumento.
La Cina, senza fare troppo rumore, fa provvista di risorse, energetiche e territoriali, solo che invece di mandare le proprie cannoniere (non è il tempo), quelle risorse se le compra, con i denari del debito americano. Putin deve fronteggiare la prima offensiva e non ha tempo da perdere. Tra l’altro un tribunale olandese, senza alcuna autorità o potere, ha decretato che la Russia dovrà pagare 50 miliardi di dollari, più gl’interessi, alla Yukos, cioè a quel bandito di Mikhail Khodorkovskij che la Russia ha scarcerato qualche mese fa con un gesto di distensione verso l’Europa (si noti che il tribunale sedeva nello stesso paese che aveva avuto il più alto numero di vittime nell’abbattimento del Boeing delle linee aeree malaysiane). Sarà stato un caso? Comunque, uno dei più vicini consiglieri di Putin, di fronte alla domanda “cosa farà la Russia di fronte a quella sentenza?”, ha risposto stringendosi nelle spalle: «C’è una Giulietto Chiesaguerra alle porte in Europa. Lei pensa realmente che una tale decisione abbia qualche importanza?».
Giuridicamente non ce l’ha, ma sarà usata dai centri di comando dell’Occidente per colpire i beni russi all’estero, per sequestrare e congelare conti bancari, proprietà azionarie. Ecco una guerra asimmetrica appena iniziata senza essere stata nemmeno dichiarata. Un influente settimanale americano ha dedicato la sua copertina a Vladimir Putin, con questo commento: “Il Paria”. Un titolo che è, invece, una dichiarazione di guerra. Solo che non è stata pronunciata dal Dipartimento di Stato, bensì dal “ministero della propaganda”, cioè dai media occidentali. È stato Paul Craig Roberts a usare questa definizione in un articolo di qualche giorno fa. Chi è Paul Craig Roberts? È stato Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo. L’articolo era intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).
(Giulietto Chiesa, “Chi parla di Terza Guerra Mondiale?”, da “Megachip” del 6 agosto 2014).
giovedì 10 luglio 2014
Leonardo da Vinci
primo "Welcome Chinese Airport"
L'aeroporto Leonardo da
Vinci è il primo scalo a essere ufficialmente accreditato come "Welcome
Chinese Airport", certificazione che attesta la conformità dello scalo
romano ai requisiti di accoglienza definiti dalla China Tourism Academy. Il
Leonardo da Vinci ha infatti avviato numerose iniziative, sia di natura
strutturale sia tipicamente di servizio, rivolgendosi ad un pubblico formato da
ben circa 800.000 passeggeri di lingua cinese-mandarino (circa il 60% del
traffico totale su Fiumicino da/per Cina, Hong Kong, Taiwan, Singapore,
Malesia, Corea del Sud, Filippine, Indonesia e Giappone).
Tra queste, la nuova
segnaletica commerciale dedicata, posizionata nelle aree d'imbarco dei voli per
la Cina ; il sito
web e la sua versione mobile, entrambi disponibili in lingua cinese con
informazioni di servizio; la realizzazione di eventi in aeroporto in occasione
di alcune importanti festività, come il Capodanno cinese; l'accettazione, come
sistema di pagamento, della carta di credito Union Pay (diffusa in Cina con
oltre 3 miliardi di possessori), dalla quasi totalità delle attività
commerciali situate in area extra-Schengen; fino ad arrivare alla segnalazione
su mappa della disponibilità di acqua calda gratuita nei punti di ristoro
dell'aerostazione.
Altre iniziative sono in
programma per il prossimo futuro: dalle informazioni in lingua sui monitor dei
voli, alla formazione del personale aeroportuale sulle modalità e la ritualità
nell'accoglienza, fino alla segnaletica in cinese-mandarino al Terminal 3 e
alle istruzioni in lingua ai controlli di sicurezza.
Le iniziative si
rivolgono trasversalmente a tutti i passeggeri che comprendono i caratteri in
mandarino e sono destinate, quindi, non soltanto ai viaggiatori di nazionalità
cinese, ma anche a tutti coloro che provengono dai Paesi asiatici limitrofi,
con importanti segmenti della popolazione che parlano questa lingua, come Hong
Kong, Taiwan, Singapore, Malesia, Corea del Sud, Filippine, Indonesia e
Giappone.
Negli ultimi cinque anni
il traffico da e per queste mete ha registrato una crescita progressiva media
annua del 6,9%, arrivando nel 2013,
a 1,3 milioni di viaggiatori, numero che comprende sia
quelli che hanno viaggiato con voli diretti, sia quelli transitati attraverso
altri scali intermedi. "Aeroporti di Roma è da tempo impegnata a favorire
l'avvio di nuove operazioni da e per mercati emergenti" - ha dichiarato
Lorenzo Lo Presti, Amministratore Delegato di ADR S.p.A. "La Cina, e il
mercato asiatico in generale - ha proseguito - con la sua rapida
industrializzazione e la sua integrazione nel contesto economico mondiale,
rappresentano una grande occasione di sviluppo per entrambi i Paesi. L'Italia
e' il primo Paese europeo di interesse turistico ed economico per i viaggiatori
cinesi e Roma, con il Leonardo da Vinci , principale hub del Mediterraneo,
offre oggi tre collegamenti diretti per le maggiori destinazioni della Cina
continentale - Pechino, Shanghai e Wenzhou. Su queste rotte nel 2013 si sono
registrati 300.000 passeggeri, in crescita del 107% rispetto al 2010, dato a
cui si somma lo storico volo operato da Cathay Pacific verso Hong Kong, uno dei
centri finanziari internazionali più importanti del mondo. Ci auguriamo,
pertanto, che l'unica certificazione riconosciuta dalle autorità del turismo
cinese, assegnataci oggi, possa essere un ulteriore stimolo ad aumentare i
volumi di traffico da tali aree".
martedì 24 giugno 2014
Giovani senzatetto, emergenza europea
Una ricerca fotografa l'aumento in tutto il continente, un fenomeno acuito dalla recessione: gli homeless sono almeno 50 mila nelle città per cui si hanno dati. In Italia sono triplicati. "Eppure la maggioranza si può reintegrare: ecco come"
di TITO BOERI
Fra una settimana inizierà il nostro turno di presidenza dell'Unione Europea e il primo luglio si riunirà per la prima volta il nuovo Parlamento europeo, uscito dalle urne un mese fa. Sarebbe bello che nei discorsi programmatici all'inizio del semestre italiano e, ancor di più, nei primi atti pubblici dell'organismo oggi più democratico di cui disponga l'Unione venisse dato un qualche segno di attenzione agli ultimi degli ultimi, a coloro che non sono registrati nei seggi elettorali semplicemente perché non hanno una residenza.
I senza dimora sono ormai come una città nella città, una popolazione di 50.000 persone nelle sole città europee su cui si hanno dati disponibili. Questi cittadini che dormono accampati in qualche modo nelle strade, anche nei mesi invernali, o trovano occasionalmente rifugio in qualche centro d'assistenza, sono aumentati in media in Europa del 45% durante la Grande Recessione. Non solo nei paesi della crisi del debito (in Italia sono triplicati), ma anche in Germania e nel nord-Europa. Cambia, tra il Nord e il Sud, ma anche tra Est e Ovest dell'Europa, la loro composizione. Più immigrati al Nord, più autoctoni, soprattutto giovani, al Sud dove è esplosa la disoccupazione giovanile. A Est sono soprattutto gli emigrati di ritorno a gonfiare le fila dei senza casa: avevano cercato fortuna in Spagna e Italia, ma la mancanza di lavoro li ha spinti a tornare a casa, più poveri di prima. Aumenta ovunque la percentuale di donne, una conseguenza dell'aumento del numero di famiglie monoparentali.
Sono questi alcuni dei principali risultati di uno studio, coordinato da Michela Braga per la fondazione Rodolfo Debenedetti, che verrà presentato venerdì prossimo a Roma. Si basa sulle ricerche di tre gruppi di studiosi, australiani, statunitensi ed europei, che da anni monitorano e analizzano il fenomeno dei senza casa, oltre che sui censimenti, organizzati dalla fondazione, in tre città italiane (Milano, Roma e Torino). Quello di Roma, i cui risultati verranno anticipati oggi in un incontro presso l'Aranciera di San Sito con le associazioni del volontariato che hanno contribuito a questa iniziativa, ha coinvolto più di 1.500 volontari che hanno per tre notti setacciato le strade all'interno del grande raccordo anulare, contando e intervistando i senza fissa dimora.
Perdita del lavoro e rottura del nucleo famigliare, due eventi tra di loro correlati perché lo stress legato alla perdita del lavoro deteriora le relazioni affettive, sono le cause maggiormente ricorrenti di questo stato. Tutto avviene nel volgere di pochi giorni e ci si ritrova, quasi senza accorgersene, senza casa e senza una famiglia cui fare riferimento. Si perdono pressoché del tutto i contatti umani, dato che ci si fida poco delle altre persone con cui si condivide questa esperienza. È una condizione che può durare a lungo, in media 3 anni a Milano e 6 anni a Roma. Contrariamente a credenze diffuse, non si tratta di persone destinate comunque alla marginalità perché alcoolizzate e comunque affette da gravi patologie psichiche, ma di persone in grado di reintegrarsi perfettamente nel tessuto sociale, una volta trovato un lavoro e, grazie a questo, una casa. Le politiche di prevenzione e di aiuto nella ricerca di lavoro, condotte nei loro confronti in paesi come la Finlandia e la Germania, hanno in queste realtà effettivamente portato al dimezzamento del loro numero dal 2000 al 2007, anche se poi la Grande Recessione e la crisi dell'Eurozona hanno nuovamente peggiorato la situazione.
Servono anche le politiche della casa. Noi abbiamo smesso di investire in edilizia sociale proprio quando i grandi flussi d'immigrazione cominciavano a prendere come obiettivo il nostro paese. Lo abbiamo fatto destinando al pagamento di pensioni, spesso a persone con meno di cinquant'anni e perfettamente in grado di lavorare, i contributi obbligatori originariamente devoluti alla Gescal, il fondo per l'edilizia popolare. E le Regioni, divenute titolari dal 1998 dei programmi di edilizia popolare, hanno pensato di vendere 150.000 alloggi (un terzo dello stock nel Nord-Italia) proprio mentre il numero di immigrati cresceva a tassi del 25 per cento all'anno.
Abbiamo così uno stock di alloggi di edilizia popolare e convenzionata pari a un quarto di quello di Francia e Regno Unito in rapporto al totale degli alloggi disponibili. Ci vogliono, così, mediamente 15 anni per avere un alloggio in una casa popolare, una volta maturati i requisiti. Se le Regioni manterranno le competenze in materia di edilizia popolare dopo la riforma del Titolo V, è bene che siano loro (e non i Comuni) a finanziare i centri di assistenza e i dormitori per i senza casa. Avranno così gli incentivi giusti per affrontare un problema che rischia di sfuggirci di mano, nonostante da noi le relazioni famigliari siano più forti che in altri paesi e contribuiscano a contenere il fenomeno, e nonostante lo straordinario contributo del volontariato nel gestire questa emergenza sociale.
Una ricerca fotografa l'aumento in tutto il continente, un fenomeno acuito dalla recessione: gli homeless sono almeno 50 mila nelle città per cui si hanno dati. In Italia sono triplicati. "Eppure la maggioranza si può reintegrare: ecco come"
di TITO BOERI
Fra una settimana inizierà il nostro turno di presidenza dell'Unione Europea e il primo luglio si riunirà per la prima volta il nuovo Parlamento europeo, uscito dalle urne un mese fa. Sarebbe bello che nei discorsi programmatici all'inizio del semestre italiano e, ancor di più, nei primi atti pubblici dell'organismo oggi più democratico di cui disponga l'Unione venisse dato un qualche segno di attenzione agli ultimi degli ultimi, a coloro che non sono registrati nei seggi elettorali semplicemente perché non hanno una residenza.
I senza dimora sono ormai come una città nella città, una popolazione di 50.000 persone nelle sole città europee su cui si hanno dati disponibili. Questi cittadini che dormono accampati in qualche modo nelle strade, anche nei mesi invernali, o trovano occasionalmente rifugio in qualche centro d'assistenza, sono aumentati in media in Europa del 45% durante la Grande Recessione. Non solo nei paesi della crisi del debito (in Italia sono triplicati), ma anche in Germania e nel nord-Europa. Cambia, tra il Nord e il Sud, ma anche tra Est e Ovest dell'Europa, la loro composizione. Più immigrati al Nord, più autoctoni, soprattutto giovani, al Sud dove è esplosa la disoccupazione giovanile. A Est sono soprattutto gli emigrati di ritorno a gonfiare le fila dei senza casa: avevano cercato fortuna in Spagna e Italia, ma la mancanza di lavoro li ha spinti a tornare a casa, più poveri di prima. Aumenta ovunque la percentuale di donne, una conseguenza dell'aumento del numero di famiglie monoparentali.
Sono questi alcuni dei principali risultati di uno studio, coordinato da Michela Braga per la fondazione Rodolfo Debenedetti, che verrà presentato venerdì prossimo a Roma. Si basa sulle ricerche di tre gruppi di studiosi, australiani, statunitensi ed europei, che da anni monitorano e analizzano il fenomeno dei senza casa, oltre che sui censimenti, organizzati dalla fondazione, in tre città italiane (Milano, Roma e Torino). Quello di Roma, i cui risultati verranno anticipati oggi in un incontro presso l'Aranciera di San Sito con le associazioni del volontariato che hanno contribuito a questa iniziativa, ha coinvolto più di 1.500 volontari che hanno per tre notti setacciato le strade all'interno del grande raccordo anulare, contando e intervistando i senza fissa dimora.
Perdita del lavoro e rottura del nucleo famigliare, due eventi tra di loro correlati perché lo stress legato alla perdita del lavoro deteriora le relazioni affettive, sono le cause maggiormente ricorrenti di questo stato. Tutto avviene nel volgere di pochi giorni e ci si ritrova, quasi senza accorgersene, senza casa e senza una famiglia cui fare riferimento. Si perdono pressoché del tutto i contatti umani, dato che ci si fida poco delle altre persone con cui si condivide questa esperienza. È una condizione che può durare a lungo, in media 3 anni a Milano e 6 anni a Roma. Contrariamente a credenze diffuse, non si tratta di persone destinate comunque alla marginalità perché alcoolizzate e comunque affette da gravi patologie psichiche, ma di persone in grado di reintegrarsi perfettamente nel tessuto sociale, una volta trovato un lavoro e, grazie a questo, una casa. Le politiche di prevenzione e di aiuto nella ricerca di lavoro, condotte nei loro confronti in paesi come la Finlandia e la Germania, hanno in queste realtà effettivamente portato al dimezzamento del loro numero dal 2000 al 2007, anche se poi la Grande Recessione e la crisi dell'Eurozona hanno nuovamente peggiorato la situazione.
Servono anche le politiche della casa. Noi abbiamo smesso di investire in edilizia sociale proprio quando i grandi flussi d'immigrazione cominciavano a prendere come obiettivo il nostro paese. Lo abbiamo fatto destinando al pagamento di pensioni, spesso a persone con meno di cinquant'anni e perfettamente in grado di lavorare, i contributi obbligatori originariamente devoluti alla Gescal, il fondo per l'edilizia popolare. E le Regioni, divenute titolari dal 1998 dei programmi di edilizia popolare, hanno pensato di vendere 150.000 alloggi (un terzo dello stock nel Nord-Italia) proprio mentre il numero di immigrati cresceva a tassi del 25 per cento all'anno.
Abbiamo così uno stock di alloggi di edilizia popolare e convenzionata pari a un quarto di quello di Francia e Regno Unito in rapporto al totale degli alloggi disponibili. Ci vogliono, così, mediamente 15 anni per avere un alloggio in una casa popolare, una volta maturati i requisiti. Se le Regioni manterranno le competenze in materia di edilizia popolare dopo la riforma del Titolo V, è bene che siano loro (e non i Comuni) a finanziare i centri di assistenza e i dormitori per i senza casa. Avranno così gli incentivi giusti per affrontare un problema che rischia di sfuggirci di mano, nonostante da noi le relazioni famigliari siano più forti che in altri paesi e contribuiscano a contenere il fenomeno, e nonostante lo straordinario contributo del volontariato nel gestire questa emergenza sociale.
venerdì 20 giugno 2014
Rapporti commerciali Italia-Cina: delegazione ICFA in Sicilia in missione di sviluppo
Giovedì, 19 Giugno 2014 09:58
Di Francesco La Licata Categoria: Internazionalizzazione
Roma, il 18 Giugno 2014 – Nell’ambito delle attività di sviluppo e di relazioni internazionali della Confederazione, anche in prospettiva di EXPO 2015, la prossima settimana la CIFA, con la collaborazione dell’Associazione Physeon, supporterà una delegazione cinese in missione di cooperazione in Sicilia.
Infatti, la Signora Yan Wang (nella foto accanto al Presidente dell'Associazione Physeon Maria Moreni), Presidente dell’Associazione ICFA (Italy China Friendship Association), avvierà nell’isola una serie di incontri con imprenditori e con rappresentanti degli enti locali, finalizzati a promuovere la cooperazione bilaterale tra Italia e Cina, con particolare riguardo a settori di attività quali il turismo, l’artigianato di qualità, l’agroindustria.
L’associazione ICFA, che vanta tra l’altro l’affiliazione con un’istituzione cinese come la CPAFFC (The Chinese People’s Association for Friendship with Foreign Countries), presieduta da Li Xiaolin, figlia dell’ex presidente cinese, ha già avviato in Sicilia importanti relazioni a livello istituzionale, che hanno un unico obiettivo: facilitare la vicinanza tra gli operatori economici dei due Paesi, per stringere alleanze e rapporti di collaborazione tra imprese, a partire da un approfondimento della reciproca conoscenza delle culture dei popoli e dei valori delle tradizioni locali.
“La nostra presenza in Italia – dichiara Yan Wang – esprime il senso di vicinanza al popolo italiano, alla sua cultura, e conferma l’interesse a stringere per il futuro rapporti di partnership culturale ed economica sempre più forti: i nostri Paesi hanno tante potenzialità, ed offrono diverse opportunità per sviluppare business tra imprese cinesi ed italiane”.
Segnaliamo che nel contesto dei programmi mirati all'internazionalizzazione delle PMI, e del rapporto di collaborazione con ICFA, l'Associazione Physeon è promotrice del progetto High Quality Italy, che promuove le imprese italiane di eccellenza, integrandole nei circuiti internazionali di distribuzione e di commercializzazione.
“Si tratta di un’occasione importante per le nostre imprese siciliane – conferma Andrea Cafà (in foto), Presidente nazionale CIFA – di mostrare ai rappresentanti cinesi le nostre capacità, di mettere in evidenza le produzioni di eccellenza, che certamente troveranno in Cina la possibilità di trovare un nuovo mercato. E devo esprimere grande apprezzamento per la missione di sviluppo della delegazione ICFA, perché coniuga l’opportunità di approfondire i valori culturali di un territorio, con lo slancio a perseguire nuove strade per l’internazionalizzazione. Gli imprenditori che all’estero hanno avuto successo – conclude Cafà – sono quelli che hanno prima acquisito conoscenza e consapevolezza dei valori culturali e sociali dei Paesi verso i quali orientare gli investimenti”.
Giovedì, 19 Giugno 2014 09:58
Di Francesco La Licata Categoria: Internazionalizzazione
Roma, il 18 Giugno 2014 – Nell’ambito delle attività di sviluppo e di relazioni internazionali della Confederazione, anche in prospettiva di EXPO 2015, la prossima settimana la CIFA, con la collaborazione dell’Associazione Physeon, supporterà una delegazione cinese in missione di cooperazione in Sicilia.
Infatti, la Signora Yan Wang (nella foto accanto al Presidente dell'Associazione Physeon Maria Moreni), Presidente dell’Associazione ICFA (Italy China Friendship Association), avvierà nell’isola una serie di incontri con imprenditori e con rappresentanti degli enti locali, finalizzati a promuovere la cooperazione bilaterale tra Italia e Cina, con particolare riguardo a settori di attività quali il turismo, l’artigianato di qualità, l’agroindustria.
L’associazione ICFA, che vanta tra l’altro l’affiliazione con un’istituzione cinese come la CPAFFC (The Chinese People’s Association for Friendship with Foreign Countries), presieduta da Li Xiaolin, figlia dell’ex presidente cinese, ha già avviato in Sicilia importanti relazioni a livello istituzionale, che hanno un unico obiettivo: facilitare la vicinanza tra gli operatori economici dei due Paesi, per stringere alleanze e rapporti di collaborazione tra imprese, a partire da un approfondimento della reciproca conoscenza delle culture dei popoli e dei valori delle tradizioni locali.
“La nostra presenza in Italia – dichiara Yan Wang – esprime il senso di vicinanza al popolo italiano, alla sua cultura, e conferma l’interesse a stringere per il futuro rapporti di partnership culturale ed economica sempre più forti: i nostri Paesi hanno tante potenzialità, ed offrono diverse opportunità per sviluppare business tra imprese cinesi ed italiane”.
Segnaliamo che nel contesto dei programmi mirati all'internazionalizzazione delle PMI, e del rapporto di collaborazione con ICFA, l'Associazione Physeon è promotrice del progetto High Quality Italy, che promuove le imprese italiane di eccellenza, integrandole nei circuiti internazionali di distribuzione e di commercializzazione.
“Si tratta di un’occasione importante per le nostre imprese siciliane – conferma Andrea Cafà (in foto), Presidente nazionale CIFA – di mostrare ai rappresentanti cinesi le nostre capacità, di mettere in evidenza le produzioni di eccellenza, che certamente troveranno in Cina la possibilità di trovare un nuovo mercato. E devo esprimere grande apprezzamento per la missione di sviluppo della delegazione ICFA, perché coniuga l’opportunità di approfondire i valori culturali di un territorio, con lo slancio a perseguire nuove strade per l’internazionalizzazione. Gli imprenditori che all’estero hanno avuto successo – conclude Cafà – sono quelli che hanno prima acquisito conoscenza e consapevolezza dei valori culturali e sociali dei Paesi verso i quali orientare gli investimenti”.
Il grande spreco di Stato tra stampanti e scrivanie: 30 miliardi da risparmiare
Oggi ci sono 32 mila stazioni appaltanti, potrebbero ridursi a 40. Si può spendere fino all'80% in meno centralizzando gli acquisti
di FEDERICO FUBINI e ROBERTO MANIA
ROMA - È un segreto di Stato. Nessuno sa quali siano le regole da applicare nei contratti tra gli amministratori pubblici e i fornitori di beni e servizi. È un patchwork da quasi 130 miliardi l'anno con oltre 32 mila soggetti - stazioni appaltanti, in burocratese - che decidono con i soldi dei contribuenti. Se si limasse questa spesa del 10%, riducendo le "stazioni" a 30 o 40, azzerando la discrezionalità e le mediazioni politiche, si libererebbero più risorse di quelle necessarie per il bonus da 80 euro. C'è chi stima che si arriverebbe fino a 30 miliardi di risparmi.
Va alzato il velo sui dati, però. Questo dovrebbe diventare il cuore della prossima legge di Stabilità: tagli mirati, semplificando la giungla degli appalti dove tutto alla fine può succedere. Il ministero dell'Economia ha incaricato il Sose, una sua controllata, di collezionare i costi dei vari enti per gli stessi beni e servizi, di renderli comparabili e pubblici. Qualcosa però si può già capire dai dati del Tesoro sul 2012. Tavoli, sedie, stampanti, computer e programmi Microsoft vengono da pianeti diversi a seconda di chi li compra. E i ministeri sembrano appaltatori più incompetenti di comuni, provincie, regioni, università o aziende sanitarie.
Una "sedia operativa", cioè la sedia classica dell'impiegato, costa in media 90,09 euro se comprata da un'amministrazione centrale. Ma il prezzo scende a 78,14 euro, con un risparmio del 13,26 %, se l'acquisto avviene attraverso
la Consip, la società pubblica che centralizza in grandi contratti circa il 10% dei 130 miliardi spesi ogni anno in beni e servizi.
Ci sono anche casi estremi. Una stampante individuale costa 214,95 euro se acquistata fuori convenzione, prezzo che precipita a 39 euro quando la stampante è presa invece tramite Consip. Vuol dire una differenza dell'81,86%. Ma ci sono anche i 573,87 euro che le amministrazioni spendono in media per ciascun portatile fuori convenzione Consip, rispetto ai 483 con convenzione. E che dire del costo di un minuto al telefono fisso o cellulare?
Quando il contratto con l'operatore è concluso senza Consip, l'onere è di oltre il 70% più alto. E dell'57% più alto per ogni messaggio sul telefonino. Domenico Casalino, amministratore delegato di Consip, è convinto che i margini per tagliare la spesa siano ampi: "Dieci miliardi o più - dice - se si centralizzano gli acquisti per comparare e rendere trasparenti gli acquisti, affidandosi ai software e attenendosi ai costi standard".
L'Autorità di controllo sui contratti pubblici (Acvp), alla cui guida ieri è stato nominato Raffaele Cantone, stima che si avrebbero risparmi fino al 14,6% se nella Sanità ci si attenesse a una griglia di prezzi di riferimento sui servizi di lavanderia, ristorazione e pulizia. Per i farmaci, poi, la spesa si ridurrebbe del 7,4% e sui dispositivi medici del 26.
Anche la Corte dei conti, nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, nota incongruenze in quelle che chiama le "spese per gli organi istituzionali". Questi sono gli stessi ovunque, con gli stessi telefoni, sedie, tavoli, auto e la stessa benzina per farle andare. Ma nel 2012 il peso per abitante è stato di 10,5 euro nelle regioni del Centro, 11 euro al Nord e 24,9 euro al Sud. Ci sono poi disparità in cui a fare peggio sono le aree più ricche del Paese. I contratti di licenza e assistenza software costano 2,7 euro per abitante nelle regioni a statuto ordinario e 14,7 euro nelle aree autonome o a statuto speciale: in primo luogo Trento, Bolzano, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta. Per non parlare di "noleggi e locazioni", che in queste regioni e provincie dell'arco alpino costano per abitante cinque volte più che nei territori a statuto ordinario. E nel costo pro-capite delle utenze telefoniche pubbliche è il Nord-Ovest d'Italia a presentare le bollette più salate (in media 132 euro).
Difficile però distinguere l'incompetenza dal puro e semplice ladrocinio. Ci hanno provato tre economisti italiani, Oriana Bandiera, Andrea Prat e Tommaso Valletti, con un studio che è diventato un caso internazionale. Lo ha pubblicato l'American Economic Review, che non dà spazio quasi mai a articoli su un singolo Paese estero. Ha fatto un'eccezione per l'Italia, perché i numeri di Bandiera, Prat e Valletti sono eccezionali. I tre hanno lavorato con la banca dati Consip sugli scarti fra regioni o enti nell'acquisto di 21 articoli come benzina o stampanti. I loro risultati sono sorprendenti.
In primo luogo, hanno scoperto che se tutti gli uffici spendessero per gli stessi beni come il 10% più virtuoso, il risparmio sarebbe di 30 miliardi. Ma soprattutto lo studio dell'American Economic Review usa un modello matematico per dividere l'incompetenza dalla disonestà: secondo i tre economisti, l'83% è "spreco passivo", dovuto a inefficienza, mentre il 17% è "spreco attivo" da razzia e ruberie.
La corruzione trova terreno fertile nel percorso che si snoda dalle migliaia di stazioni appaltanti fino ai piccoli che vivono di subappalti. Accusa la Commissione europea: "In Italia la corruzione risulta particolarmente lucrativa nella fase successiva all'aggiudicazione, soprattutto nei controlli di qualità o di completamento dei contratti. La Corte dei conti ha più volte constatato la correttezza della gara, il rispetto delle procedure e l'aggiudicazione dell'appalto all'offerta più vantaggiosa, ma la qualità dei lavori è poi intenzionalmente compromessa nell'esecuzione".
Sembra di vedere il film dei lavori per l'Expo o per la Tav, perché è proprio nelle grandi opere pubbliche che la Corte dei conti stima il giro d'affari da corruzione intorno al 40% del valore dell'appalto. Sempre i magistrati contabili hanno calcolata che la corruzione vale 60 miliardi l'anno. Una cifra enorme, anche se alcuni economisti la considerano in difetto per eccesso. Di certo non molto lontano dalla realtà. D'altra parte, nota la Commissione Ue che l'alta velocità è costata in Italia 47,3 milioni di euro a chilometro sulla Roma-Napoli e 96,4 milioni tra Bologna e Firenze, mentre la Parigi-Lione è costata 10,2 milioni, e 9,3 milioni la Tokyo-Osaka.
La risposta del governo è chiara: disboscare le stazioni appaltanti. La scure è arrivata con il decreto Irpef ora all'esame della Camera: "Il numero complessivo dei soggetti aggregatori presenti sul territorio nazionale non può essere superiore a 35" (articolo 9, comma 5 del decreto numero 66).
La bozza della riforma per il codice degli appalti preparato dal viceministro delle Infrastrutture Riccardo Nencini si muove nella stessa direzione. Ridurre le stazioni vuol dire ridimensionare le possibilità di corruzione e collusione. Quest'ultimo peraltro è un problema sempre più evidente: l'autorità Antitrust di recente ha aperto sette istruttorie per ipotesi di cartello fra imprese negli appalti anche se, guarda caso, gli enti segnalano sospetti o anomalie solo molto di rado.
Ma i risparmi, se e quando arriveranno, sono destinati a creare anche contraccolpi sull'economia. Gustavo Piga, economista ed ex presidente di Consip, avverte che un sistema basato sui grandi contratti può colpire migliaia di imprese familiari che oggi vivono di piccoli appalti. Questa riforma rischia di riscrivere la geografia dell'apparato produttivo italiano, lasciando fuori la stragrande maggioranza dei fornitori.
Sostengono i rappresentanti gli artigiani delle Cna e l'Ance, l'associazione dei costruttori, che così "si uccide un pezzo di economia locale". Già oggi le gare (quando ci sono) vengono vinte dai Consorzi industriali e dalle cooperative che - denuncia la Cna - prima affidavano i subappalti ai piccoli mentre ora accentrano tutto, fino ad assorbire la stessa manodopera locale.
Il Paese è dunque a un bivio: tagliare la spesa significa togliere ossigeno ai piccoli, proprio mentre invece le leggi e le mosse del governo incentivano le imprese a mantenere una taglia ridotta. Basti pensare alle misure sui mini bond, a quelli sulle garanzie creditizie o ai contratti di lavoro più flessibili quando l'impresa è sotto la soglia dei 15 addetti. Ma per il governo è tempo di scelte. E come diceva Milton Friedman, nessun pasto è gratis: anche, ma non solo, nelle mense pubbliche.
(15 giugno 2014)
Oggi ci sono 32 mila stazioni appaltanti, potrebbero ridursi a 40. Si può spendere fino all'80% in meno centralizzando gli acquisti
di FEDERICO FUBINI e ROBERTO MANIA
ROMA - È un segreto di Stato. Nessuno sa quali siano le regole da applicare nei contratti tra gli amministratori pubblici e i fornitori di beni e servizi. È un patchwork da quasi 130 miliardi l'anno con oltre 32 mila soggetti - stazioni appaltanti, in burocratese - che decidono con i soldi dei contribuenti. Se si limasse questa spesa del 10%, riducendo le "stazioni" a 30 o 40, azzerando la discrezionalità e le mediazioni politiche, si libererebbero più risorse di quelle necessarie per il bonus da 80 euro. C'è chi stima che si arriverebbe fino a 30 miliardi di risparmi.
Va alzato il velo sui dati, però. Questo dovrebbe diventare il cuore della prossima legge di Stabilità: tagli mirati, semplificando la giungla degli appalti dove tutto alla fine può succedere. Il ministero dell'Economia ha incaricato il Sose, una sua controllata, di collezionare i costi dei vari enti per gli stessi beni e servizi, di renderli comparabili e pubblici. Qualcosa però si può già capire dai dati del Tesoro sul 2012. Tavoli, sedie, stampanti, computer e programmi Microsoft vengono da pianeti diversi a seconda di chi li compra. E i ministeri sembrano appaltatori più incompetenti di comuni, provincie, regioni, università o aziende sanitarie.
Una "sedia operativa", cioè la sedia classica dell'impiegato, costa in media 90,09 euro se comprata da un'amministrazione centrale. Ma il prezzo scende a 78,14 euro, con un risparmio del 13,26 %, se l'acquisto avviene attraverso
la Consip, la società pubblica che centralizza in grandi contratti circa il 10% dei 130 miliardi spesi ogni anno in beni e servizi.
Ci sono anche casi estremi. Una stampante individuale costa 214,95 euro se acquistata fuori convenzione, prezzo che precipita a 39 euro quando la stampante è presa invece tramite Consip. Vuol dire una differenza dell'81,86%. Ma ci sono anche i 573,87 euro che le amministrazioni spendono in media per ciascun portatile fuori convenzione Consip, rispetto ai 483 con convenzione. E che dire del costo di un minuto al telefono fisso o cellulare?
Quando il contratto con l'operatore è concluso senza Consip, l'onere è di oltre il 70% più alto. E dell'57% più alto per ogni messaggio sul telefonino. Domenico Casalino, amministratore delegato di Consip, è convinto che i margini per tagliare la spesa siano ampi: "Dieci miliardi o più - dice - se si centralizzano gli acquisti per comparare e rendere trasparenti gli acquisti, affidandosi ai software e attenendosi ai costi standard".
L'Autorità di controllo sui contratti pubblici (Acvp), alla cui guida ieri è stato nominato Raffaele Cantone, stima che si avrebbero risparmi fino al 14,6% se nella Sanità ci si attenesse a una griglia di prezzi di riferimento sui servizi di lavanderia, ristorazione e pulizia. Per i farmaci, poi, la spesa si ridurrebbe del 7,4% e sui dispositivi medici del 26.
Anche la Corte dei conti, nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, nota incongruenze in quelle che chiama le "spese per gli organi istituzionali". Questi sono gli stessi ovunque, con gli stessi telefoni, sedie, tavoli, auto e la stessa benzina per farle andare. Ma nel 2012 il peso per abitante è stato di 10,5 euro nelle regioni del Centro, 11 euro al Nord e 24,9 euro al Sud. Ci sono poi disparità in cui a fare peggio sono le aree più ricche del Paese. I contratti di licenza e assistenza software costano 2,7 euro per abitante nelle regioni a statuto ordinario e 14,7 euro nelle aree autonome o a statuto speciale: in primo luogo Trento, Bolzano, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta. Per non parlare di "noleggi e locazioni", che in queste regioni e provincie dell'arco alpino costano per abitante cinque volte più che nei territori a statuto ordinario. E nel costo pro-capite delle utenze telefoniche pubbliche è il Nord-Ovest d'Italia a presentare le bollette più salate (in media 132 euro).
Difficile però distinguere l'incompetenza dal puro e semplice ladrocinio. Ci hanno provato tre economisti italiani, Oriana Bandiera, Andrea Prat e Tommaso Valletti, con un studio che è diventato un caso internazionale. Lo ha pubblicato l'American Economic Review, che non dà spazio quasi mai a articoli su un singolo Paese estero. Ha fatto un'eccezione per l'Italia, perché i numeri di Bandiera, Prat e Valletti sono eccezionali. I tre hanno lavorato con la banca dati Consip sugli scarti fra regioni o enti nell'acquisto di 21 articoli come benzina o stampanti. I loro risultati sono sorprendenti.
In primo luogo, hanno scoperto che se tutti gli uffici spendessero per gli stessi beni come il 10% più virtuoso, il risparmio sarebbe di 30 miliardi. Ma soprattutto lo studio dell'American Economic Review usa un modello matematico per dividere l'incompetenza dalla disonestà: secondo i tre economisti, l'83% è "spreco passivo", dovuto a inefficienza, mentre il 17% è "spreco attivo" da razzia e ruberie.
La corruzione trova terreno fertile nel percorso che si snoda dalle migliaia di stazioni appaltanti fino ai piccoli che vivono di subappalti. Accusa la Commissione europea: "In Italia la corruzione risulta particolarmente lucrativa nella fase successiva all'aggiudicazione, soprattutto nei controlli di qualità o di completamento dei contratti. La Corte dei conti ha più volte constatato la correttezza della gara, il rispetto delle procedure e l'aggiudicazione dell'appalto all'offerta più vantaggiosa, ma la qualità dei lavori è poi intenzionalmente compromessa nell'esecuzione".
Sembra di vedere il film dei lavori per l'Expo o per la Tav, perché è proprio nelle grandi opere pubbliche che la Corte dei conti stima il giro d'affari da corruzione intorno al 40% del valore dell'appalto. Sempre i magistrati contabili hanno calcolata che la corruzione vale 60 miliardi l'anno. Una cifra enorme, anche se alcuni economisti la considerano in difetto per eccesso. Di certo non molto lontano dalla realtà. D'altra parte, nota la Commissione Ue che l'alta velocità è costata in Italia 47,3 milioni di euro a chilometro sulla Roma-Napoli e 96,4 milioni tra Bologna e Firenze, mentre la Parigi-Lione è costata 10,2 milioni, e 9,3 milioni la Tokyo-Osaka.
La risposta del governo è chiara: disboscare le stazioni appaltanti. La scure è arrivata con il decreto Irpef ora all'esame della Camera: "Il numero complessivo dei soggetti aggregatori presenti sul territorio nazionale non può essere superiore a 35" (articolo 9, comma 5 del decreto numero 66).
La bozza della riforma per il codice degli appalti preparato dal viceministro delle Infrastrutture Riccardo Nencini si muove nella stessa direzione. Ridurre le stazioni vuol dire ridimensionare le possibilità di corruzione e collusione. Quest'ultimo peraltro è un problema sempre più evidente: l'autorità Antitrust di recente ha aperto sette istruttorie per ipotesi di cartello fra imprese negli appalti anche se, guarda caso, gli enti segnalano sospetti o anomalie solo molto di rado.
Ma i risparmi, se e quando arriveranno, sono destinati a creare anche contraccolpi sull'economia. Gustavo Piga, economista ed ex presidente di Consip, avverte che un sistema basato sui grandi contratti può colpire migliaia di imprese familiari che oggi vivono di piccoli appalti. Questa riforma rischia di riscrivere la geografia dell'apparato produttivo italiano, lasciando fuori la stragrande maggioranza dei fornitori.
Sostengono i rappresentanti gli artigiani delle Cna e l'Ance, l'associazione dei costruttori, che così "si uccide un pezzo di economia locale". Già oggi le gare (quando ci sono) vengono vinte dai Consorzi industriali e dalle cooperative che - denuncia la Cna - prima affidavano i subappalti ai piccoli mentre ora accentrano tutto, fino ad assorbire la stessa manodopera locale.
Il Paese è dunque a un bivio: tagliare la spesa significa togliere ossigeno ai piccoli, proprio mentre invece le leggi e le mosse del governo incentivano le imprese a mantenere una taglia ridotta. Basti pensare alle misure sui mini bond, a quelli sulle garanzie creditizie o ai contratti di lavoro più flessibili quando l'impresa è sotto la soglia dei 15 addetti. Ma per il governo è tempo di scelte. E come diceva Milton Friedman, nessun pasto è gratis: anche, ma non solo, nelle mense pubbliche.
(15 giugno 2014)
domenica 15 giugno 2014
Expo: padiglione cinese
4.590ma ispirati all'armonia
Milano, 12 giugno. - Sara' il secondo padiglione piu' grande dopo quello della Germania con 4.590 mq; accogliera' i visitatori con il tema 'Terra di speranza, cibo per la vita'; con un design ispirato al concetto di 'armonia' provera' a raccontare la vasta cultura cinese e il suo "sforzo" per nutrire una popolazione di 1,3 miliardi nel rispetto della natura. La sfida cinese per lo sviluppo e la sua esperienza millenaria nel comparto dell'agricoltura entrano in pieno nella fase operativa in vista di Expo 2015: il padiglione del Paese - presentato oggi a Milano che sara' affiancato da alti due padiglioni corporate di due aziende - comincera' a nascere la prossima settima quando inizieranno gli scavi per le fondamenta.
E' al prima volta che la Cina partecipa ad un'Expo oltremare con un padiglione 'self-built' e ha deciso di farlo a Milano per dare una spinta alla collaborazione tra i due Paesi. Il progetto architettonico riproduce delle 'onde di grano' dove le forme di un paesaggio naturale si fondono a quelle di uno skyline urbano; il tetto sara' coperto di bambu' che produrra' un riflesso di colore oro nelle giornate di sole e lascera' filtrare la luce limitando al massimo l'illuminazione artificiale in linea con il messaggio di sviluppo sostenibile di Expo 2015.
Cinque le aree in cui sara' diviso il padiglione: una di attesa accogliera' i visitatori con schermi lcd; l'area 'cielo' raccontera' le 24 ricorrenze annuali del calendario lunare e i relativi cambiamenti dell'agricoltura; l'area 'uomini' sara' dedicata alla rappresentazione di 16 elementi tipici della tradizione cinese; nell'area 'terra' verranno presentati i paesaggi tipici attraverso tecnologie avanzate e nell'area 'armonia', infine, verra' raccontato lo "sforzo" cinese di coniugare lo sviluppo con la natura.
Il progetto di partecipazione cinese sara' corredato da un logo e due mascotte; mentre il padiglione sara' animato con un ricco calendario di eventi e iniziative funzionali soprattutto a far conoscere la Cina che arrivera' a Expo, e anche questa sara' una prima volta, con la maggior parte delle Province che la compongono. "C'e' volonta' di sviluppare la collaborazione tra i due Paesi - ha riferito il commissario cinese a Expo - cosi' come detto dal presidente Renzi nella sua visita. Faremo del nostro meglio per costruire questa piattaforma, vogliamo migliorare gli scambi e far nascere diversi progetti. Siamo fiduciosi - ha aggiunto - che con l'impegno del Governo italiano e il forte sostegno della comunita' internazionale, Expo Milano sara' un evento memorabile". "La Cina - ha detto l'ad di Expo Spa, Giuseppe Sala - si sta rivelando il nostro partner fondamentale, senza togliere nulla ad altri. E' il paese che ha fatto il maggior investimento, non soltanto in termini economici, ma anche culturali e di presenza con i suoi tre padiglioni. E' il segno che, oltre a vedere le difficolta' e a volte anche i limiti di Expo, non possiamo non vederne le grandi opportunita'".
VENDUTI GIA' 500MILA BIGLIETTI IN CINA,
OBIETTIVO 1 MLN
Sono gia' stati venduti 500mila biglietti per Expo 2015 ai tour operator in Cina e si guarda al traguardo del milione quando manca meno un evento a ll'Expo di Milan Il risultato e' stato reso noto dall'ad di Expo Spa, Giuseppe Sala, e dal commissario della Cina all'evento, Wang Jinzhen.
"E' un risultato importante - ha commentato Sala - e credo anche che sia importante dire che potenzialmente un milione di cinesi verra' in Italia perche', al di la' della logica dei visti, c'e' un tema legato ai voli e quindi poter dire alle compagnie aeree che c'e' questa opportunita' dara' un grande contributo".
Il commissario cinese, in occasione dell presentazione del padiglione con cui il Paese sara' presente all'Expo - oltre ad altri due corporate - ha reso noto che la Cina e' pronta a sostenere l'evento milanese anche con attivita' di promozione. A questo scopo, e' stato firmato un accordo e un road show partira' per le province cinesi a settembre, corredato da una motra che raccontera' cos'e' l'Expo e come sara' declinata la presenza cinese.
RENZI RIMONTA A PECHINO
TUTTI GLI ACCORDI FIRMATI
DURANTE LA VISITA DEL PREMIER
di Eugenio Buzzetti
Twitter@Eastofnowest
Pechino, 13 giu. - La visita ufficiale a Pechino del presidente del Consiglio Matteo Renzi è stato il momento in cui Italia e Cina hanno siglato gli accordi di partenariato tra aziende italiane e cinesi per la cooperazione nei settori di maggiore rilevanza per entrambi i Paesi. Renzi ha affrontato il viaggio conscio del forte squilibrio nella bilancia commerciale tra Cina e Italia, pari a 13 miliardi di euro. "Una sconfitta netta" ha commentato ieri il premier, che potrebbe essere ridimensionata dall'Expo di Milano del prossimo anno, per il quale, in Cina, sono forti le aspettative, aveva spiegato ieri Renzi ai suoi collaboratori. La Cina sarà presente a Milano con tre padiglioni: oltre a quello governativo, ci sarà il padiglione gestito dal gruppo immobiliare Vanke e quello di China Corporate United Pavillion, espressione dei grandi gruppi industriali cinesi. Nel suo discorso finale alla Grande Sala del Popolo di Pechino, assieme al primo ministro cinese, Li Keqiang, Renzi si è soffermato sull'importanza per l'Italia dei prossimi dodici mesi, che si apriranno con il semestre di presidenza Ue e si concluderanno proprio con l'evento di Milano. "E' l'anno in cui la nostra partnership può avere una svolta reale - ha detto il premier ieri - E vogliamo offire il segno della nostra collaborazione".
Sul piano politico, il business forum Italia-Cina, che cade nel decennale della partnership strategica tra i due Paesi, ha prodotto uno statuto istitutivo, un testo del piano d'azione adottato dai due premier, e il memorandum d'intesa tra il Ministero per lo Sviluppo Economico del governo italiano e il Ministero del Commercio cinese per il rafforzamento della collaborazione economico-commerciale in cinque aree di cooperazione, che sono quelle delle tecnologie verdi e dello sviluppo sostenibile, dell'agricoltura e sicurezza alimentare, dell'urbanizzazione sostenibile, della sanità e servizi sanitari, dell'aviazione e aerospazio.
Il business Forum Italia-Cina è stata l'occasione per i campioni dell'industria italiana di siglare accordi con i partner cinesi. Tra i grandi nomi del settore industriale, ci sono quelli di Enel e Finmeccanica. Il gruppo di distribuzione di energia elettrica italiano ha firmato accordi strategici con China Huaneng Group per lo sviluppo congiunto di tecnologie, di progetti elettrici da fonti convenzionali e rinnovabili, programmi di carbon strategy e di collaborazione accademica tra i rispettivi centri studi. Con China National Nuclear Corporation, Francesco Starace, amministratore delegato e direttore generale del gruppo, ha firmato unaccorod per la cooperazione el campo della costruzione e della gestione di centrali nucleari. "Gli accordi siglati oggi segnano l'inizio della collaborazione con aziende cinesi chiave in settori che saranno critici per vincere le nostre sfide energetiche di domani. Queste intese, inoltre - ha commentato Starace - danno atto del valore che Enel porta attraverso la sua tecnologia ed esperienza in molte aree del settore elettrico". Starace si è poi detto "fiducioso" che la cooperazione di Enel con i partner cinesi "porterà vantaggi per tutte le parti coinvolte".
Finmeccanica è stata protagonista con due accordi firmati durante il business forum. Il primo è il memorandum d'intesa del valore stimato in 500 milioni di euro di Agusta Westland che fornirà a Beijing Automotive Industrial Corporation 50 elicotteri "esclusivamente dedicati a compiti di pubblica utilità" spiega in una nota l'amministratore delegato e direttore generale del gruppo, Mauro Moretti. Un'altra società del gruppo Finmeccanica, Ansaldo STS, ha poi firmato un accordo per il valore di 36 milioni di euro con United Mechanical and Electrical Co. Ltd. per la realizzazione di impianti di sistemi di segnalamento sulle linee metropolitane di alcune città cinesi, della costa e del nord-est.
Tra gli altri accordi siglati in sede di business forum ci sono poi il memorandum d'intesa del valore di cinque milioni di euro tra Sogin e un altro gruppo del nucleare cinese, China General Nuclear Power, per lo smantellamento nucleare e la gestione dei rifiuti radioattivi, l'accordo di cooperazione tra Invitalia e la municipalità di Ningbo, nella Cina orientale, per l'avvio di una cooperazione strategica per la costituzione di un "Parco industriale Ningbo-Italia" e la formalizzazione degli accordi di Genova tra Ansaldo Energia e Shanghai Electric, per l'acquisto di quote del gruppo italiano da parte di Shanghai Electric e la costituzione di due joint-venture, per il valore stimato di circa 400 milioni di euro. Il govenro italiano, tramite il Ministero per lo Sviluppo Economico, ha poi firmato un memorandum d'intesa con il gruppo di e-commerce Alibaba per promuovere maggiori opportunità commerciali per le imprese che vogliono essere attive sulla piattaforma Tmall del gigante cinese dell'e-commerce.
RENZI, RECUPERARE POSIZIONI
E APRIRSI A INVESTIMENTI
"Sono 33 miliardi i denari di interscambio tra Italia e Cina, solo che sono squilibrati: 23-10. Noi dobbiamo recuperare posizioni: possiamo investire di più e aprirci a investimenti che siano produttivi per il nostro territorio, che vuole dire posti di lavoro". Questo il commento del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, sul disavanzo commerciale tra Roma e Pechino, nelle ultime ore della sua tappa pechinese, terzo stop della sua missione asiatica che oggi continua in Kazakistan. "Tocca all'Italia smettere di dividersi e giocare finalmente in squadra, ma non a parole, giocare sul serio - spiega Renzi - Questo è il senso della visita: se è andata bene o no lo vedremo nei prossimi mesi, vedendo crescere o meno le percentuali di ricchezza e anche naturalmente di posti di lavoro".
Renzi, dal Kempisnki Hotel di Pechino, dove si è incontrato con i vertici di Huawei e con Jack Ma, fondatore del gruppo di e-commerce Alibaba, è poi tornato sul tema dell'internazionalizzazione delle imprese. "In molti dicono: uno va all'estero e porta via posti di lavoro in Italia. Non è così. Lo abbiamo visto in Vietnam: se la Piaggio è ancora aperta a Pontedera è perché ha avuto la possibilità di investire in Vietnam. E allo stesso modo tante aziende che qui vengono a investire non stanno delocalizzando, stanno internazionalizzando. La differenza è semplice: stanno facendo soldi per poi rilanciare l'Italia.
Dall'altro lato - continua il premier - gli investimenti cinesi in Italia sono ancora pochi. Dobbiamo essere aperti a ricevere il capitale straniero, perché l'investimento sia in Italia, che significa posti di lavoro".
Il premier ha poi riflettuto sulla situazione italiana e sul significato della visita a Pechino. "Quando hai una disoccupazione del 46% è naturale che il presidente del Consiglio debba muoversi, girare e cercare di portare un po' di risorse in Italia. E' quello che abbiamo fatto, accanto a una importante visita istituzionale". Renzi ricorda gli incontri di ieri con il presidente cinese Xi Jinping, e il primo ministro Li Keqiang, e quello con Zhang Dejiang, presidente della Assemblea Nazionale del Popolo, oltre a quello che ha avuto oggi con il governatore della People's Bank of China, la banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan. "L'obiettivo è molto chiaro - conclude Renzi - l'Italia a testa alta guarda al futuro con la decisione e la determinazione di chi sa che in Cina tanti amano il nostro Paese, tanti vorrebbero acquistare i nostri prodotti e condividere le nostre esperienze culturali".
TUTTI GLI ACCORDI FIRMATI
DURANTE LA VISITA DEL PREMIER
di Eugenio Buzzetti
Twitter@Eastofnowest
Pechino, 13 giu. - La visita ufficiale a Pechino del presidente del Consiglio Matteo Renzi è stato il momento in cui Italia e Cina hanno siglato gli accordi di partenariato tra aziende italiane e cinesi per la cooperazione nei settori di maggiore rilevanza per entrambi i Paesi. Renzi ha affrontato il viaggio conscio del forte squilibrio nella bilancia commerciale tra Cina e Italia, pari a 13 miliardi di euro. "Una sconfitta netta" ha commentato ieri il premier, che potrebbe essere ridimensionata dall'Expo di Milano del prossimo anno, per il quale, in Cina, sono forti le aspettative, aveva spiegato ieri Renzi ai suoi collaboratori. La Cina sarà presente a Milano con tre padiglioni: oltre a quello governativo, ci sarà il padiglione gestito dal gruppo immobiliare Vanke e quello di China Corporate United Pavillion, espressione dei grandi gruppi industriali cinesi. Nel suo discorso finale alla Grande Sala del Popolo di Pechino, assieme al primo ministro cinese, Li Keqiang, Renzi si è soffermato sull'importanza per l'Italia dei prossimi dodici mesi, che si apriranno con il semestre di presidenza Ue e si concluderanno proprio con l'evento di Milano. "E' l'anno in cui la nostra partnership può avere una svolta reale - ha detto il premier ieri - E vogliamo offire il segno della nostra collaborazione".
Sul piano politico, il business forum Italia-Cina, che cade nel decennale della partnership strategica tra i due Paesi, ha prodotto uno statuto istitutivo, un testo del piano d'azione adottato dai due premier, e il memorandum d'intesa tra il Ministero per lo Sviluppo Economico del governo italiano e il Ministero del Commercio cinese per il rafforzamento della collaborazione economico-commerciale in cinque aree di cooperazione, che sono quelle delle tecnologie verdi e dello sviluppo sostenibile, dell'agricoltura e sicurezza alimentare, dell'urbanizzazione sostenibile, della sanità e servizi sanitari, dell'aviazione e aerospazio.
Il business Forum Italia-Cina è stata l'occasione per i campioni dell'industria italiana di siglare accordi con i partner cinesi. Tra i grandi nomi del settore industriale, ci sono quelli di Enel e Finmeccanica. Il gruppo di distribuzione di energia elettrica italiano ha firmato accordi strategici con China Huaneng Group per lo sviluppo congiunto di tecnologie, di progetti elettrici da fonti convenzionali e rinnovabili, programmi di carbon strategy e di collaborazione accademica tra i rispettivi centri studi. Con China National Nuclear Corporation, Francesco Starace, amministratore delegato e direttore generale del gruppo, ha firmato unaccorod per la cooperazione el campo della costruzione e della gestione di centrali nucleari. "Gli accordi siglati oggi segnano l'inizio della collaborazione con aziende cinesi chiave in settori che saranno critici per vincere le nostre sfide energetiche di domani. Queste intese, inoltre - ha commentato Starace - danno atto del valore che Enel porta attraverso la sua tecnologia ed esperienza in molte aree del settore elettrico". Starace si è poi detto "fiducioso" che la cooperazione di Enel con i partner cinesi "porterà vantaggi per tutte le parti coinvolte".
Finmeccanica è stata protagonista con due accordi firmati durante il business forum. Il primo è il memorandum d'intesa del valore stimato in 500 milioni di euro di Agusta Westland che fornirà a Beijing Automotive Industrial Corporation 50 elicotteri "esclusivamente dedicati a compiti di pubblica utilità" spiega in una nota l'amministratore delegato e direttore generale del gruppo, Mauro Moretti. Un'altra società del gruppo Finmeccanica, Ansaldo STS, ha poi firmato un accordo per il valore di 36 milioni di euro con United Mechanical and Electrical Co. Ltd. per la realizzazione di impianti di sistemi di segnalamento sulle linee metropolitane di alcune città cinesi, della costa e del nord-est.
Tra gli altri accordi siglati in sede di business forum ci sono poi il memorandum d'intesa del valore di cinque milioni di euro tra Sogin e un altro gruppo del nucleare cinese, China General Nuclear Power, per lo smantellamento nucleare e la gestione dei rifiuti radioattivi, l'accordo di cooperazione tra Invitalia e la municipalità di Ningbo, nella Cina orientale, per l'avvio di una cooperazione strategica per la costituzione di un "Parco industriale Ningbo-Italia" e la formalizzazione degli accordi di Genova tra Ansaldo Energia e Shanghai Electric, per l'acquisto di quote del gruppo italiano da parte di Shanghai Electric e la costituzione di due joint-venture, per il valore stimato di circa 400 milioni di euro. Il govenro italiano, tramite il Ministero per lo Sviluppo Economico, ha poi firmato un memorandum d'intesa con il gruppo di e-commerce Alibaba per promuovere maggiori opportunità commerciali per le imprese che vogliono essere attive sulla piattaforma Tmall del gigante cinese dell'e-commerce.
RENZI, RECUPERARE POSIZIONI
E APRIRSI A INVESTIMENTI
"Sono 33 miliardi i denari di interscambio tra Italia e Cina, solo che sono squilibrati: 23-10. Noi dobbiamo recuperare posizioni: possiamo investire di più e aprirci a investimenti che siano produttivi per il nostro territorio, che vuole dire posti di lavoro". Questo il commento del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, sul disavanzo commerciale tra Roma e Pechino, nelle ultime ore della sua tappa pechinese, terzo stop della sua missione asiatica che oggi continua in Kazakistan. "Tocca all'Italia smettere di dividersi e giocare finalmente in squadra, ma non a parole, giocare sul serio - spiega Renzi - Questo è il senso della visita: se è andata bene o no lo vedremo nei prossimi mesi, vedendo crescere o meno le percentuali di ricchezza e anche naturalmente di posti di lavoro".
Renzi, dal Kempisnki Hotel di Pechino, dove si è incontrato con i vertici di Huawei e con Jack Ma, fondatore del gruppo di e-commerce Alibaba, è poi tornato sul tema dell'internazionalizzazione delle imprese. "In molti dicono: uno va all'estero e porta via posti di lavoro in Italia. Non è così. Lo abbiamo visto in Vietnam: se la Piaggio è ancora aperta a Pontedera è perché ha avuto la possibilità di investire in Vietnam. E allo stesso modo tante aziende che qui vengono a investire non stanno delocalizzando, stanno internazionalizzando. La differenza è semplice: stanno facendo soldi per poi rilanciare l'Italia.
Dall'altro lato - continua il premier - gli investimenti cinesi in Italia sono ancora pochi. Dobbiamo essere aperti a ricevere il capitale straniero, perché l'investimento sia in Italia, che significa posti di lavoro".
Il premier ha poi riflettuto sulla situazione italiana e sul significato della visita a Pechino. "Quando hai una disoccupazione del 46% è naturale che il presidente del Consiglio debba muoversi, girare e cercare di portare un po' di risorse in Italia. E' quello che abbiamo fatto, accanto a una importante visita istituzionale". Renzi ricorda gli incontri di ieri con il presidente cinese Xi Jinping, e il primo ministro Li Keqiang, e quello con Zhang Dejiang, presidente della Assemblea Nazionale del Popolo, oltre a quello che ha avuto oggi con il governatore della People's Bank of China, la banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan. "L'obiettivo è molto chiaro - conclude Renzi - l'Italia a testa alta guarda al futuro con la decisione e la determinazione di chi sa che in Cina tanti amano il nostro Paese, tanti vorrebbero acquistare i nostri prodotti e condividere le nostre esperienze culturali".
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