Rapporto Svimez: un Paese spaccato diviso e diseguale.......
e la nostra Sardegna sempre più giù, giù, giù ed ancora
più giù al punto che non ne possiamo più
Roma - È un Paese «spaccato», «diviso e diseguale dove il sud scivola sempre più nell’arretramento» quello che emerge dal rapporto Svimez. Il Pil del Sud nel 2013 è «crollato del 3,5% contro il -1,4% del centro Nord; negli anni di crisi 2008-2013 «il Sud ha perso il 13,3% con il 7%». Il divario di Pil pro capite è tornato ai livelli di 10 anni fa.
Lo Svimez calcola che «nel 2013 il Pil è crollato nel Mezzogiorno del 3,5%, approfondendo la flessione dell’anno precedente (-3,2%), con un calo superiore di quasi due percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4%)». Ed è «per il sesto anno consecutivo» che il Pil del Mezzogiorno «registra segno negativo, a testimonianza della criticità dell’area». Anche gli andamenti di lungo periodo «confermano un Paese spaccato e diseguale: negli anni di crisi 2008-2013 il Sud ha perso -13,3% contro il 7% del Centro-Nord».
A livello regionale nel 2013 il segno è negativo per tutte le regioni italiane, a eccezione del Trentino alto Adige (+1,3%) e della stazionaria Toscana (0%). Anche le regioni del Centro-Nord, sono tornate a segnare cali significativi, come l’Emilia Romagna (-1,5%), il Piemonte (-2,6%), il Veneto (-3,6%), fino alla Valle d’Aosta (-4,4%). Nel Mezzogiorno la forbice resta compresa tra il -1,8% dell’Abruzzo e il -6% della Basilicata, fanalino di coda nazionale. In posizione intermedia la Campania (-2,1%), la Sicilia (-2,7%), il Molise (-3,2%). Giù anche Sardegna (-4,4%) , Calabria (-5%) e Puglia (-5,6%).
«Guardando agli anni della crisi, dal 2008 al 2013 - si legge nel rapporto Svimez -, profonde difficoltà restano soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16%, accanto alla Puglia (-14,3%), la Sicilia (-14,6%) e la Calabria (-13,3%). Nel periodo 2001-2013 l’Italia è andata «peggio della Grecia», «il tasso di crescita cumulato è stato + 15% in Germania, +19% in Spagna, + 14,3% in Francia. Segno positivo perfino in Grecia, +1,6%. Negativa l’Italia, con -0,2%, tirata giù sostanzialmente dal Mezzogiorno, che perde oltre il 7%, contro il +2% del Centro-Nord».
Nel periodo 2008-2013 «la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Mezzogiorno i 13 punti percentuali (-12,7%), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7%)»; gli investimenti fissi lordi «sono crollati del 33% nel Mezzogiorno e del 24,5% nel Centro-Nord»: quelli nell’industria si sono ridotti «addirittura del 53,4%, più del doppio rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-24,6%).
Giù anche gli investimenti nelle costruzioni, con un calo cumulato del -26,7% al Sud e del -38,4% al Centro-Nord, ed in agricoltura, (-44,6% al Sud, quasi tre volte più del Centro-Nord, -14,5%)». Ed è «ancora in calo la spesa pubblica per investimenti al Sud: nel 2012 la spesa aggiuntiva per il Sud è scesa al 67,3% del totale nazionale, ben al di sotto della quota dell’80% fissata per la ripartizione delle risorse aggiuntive tra aree depresse del Centro-Nord e del Sud del Paese». E sono «particolarmente preoccupanti i tagli agli investimenti in infrastrutture».
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domenica 31 agosto 2014
venerdì 22 agosto 2014
Accordo tra Russia e Cina: la de-dollarizzazione accelera!
Gli ultimi 3 mesi hanno visto i piani di “de-dollarizzazione” della Russia accelerare. Prima i clienti di Gazprom sono approdati agli euro e al renminbi , poi i contratti di currency swap vengono siglati tra Regno Unito e Cina , successivamente l’alleato della NATO, la Turchia taglia i legami e pensa alla de-dollarizzazione , la Svizzera rimbalza i contratti di currency swap, e i BRICS creano un proprio veicolo finanziario non basato sul sistema finanziario USA e poi finalmente questa settimana gli oligarchi russi spostano le loro riserve nelle casse di Hong Kong. Ma proprio questa settimana, come riporta RT ,le banche centrali di Russia e Cina hanno concordato una bozza di un contratto sullo swap, che consentirà loro di aumentare gli scambi nelle valute nazionali e tagliare la dipendenza dal dollaro statunitense nei pagamenti bilaterali.”L’accordo stimolerà l’ulteriore sviluppo degli scambi diretti in yuan e rubli sui mercati dei cambi nazionali di Russia e Cina , “il regolatore russo ha detto.
Gli ultimi 3 mesi hanno visto i piani di “de-dollarizzazione” della Russia accelerare. Prima i clienti di Gazprom sono approdati agli euro e al renminbi , poi i contratti di currency swap vengono siglati tra Regno Unito e Cina , successivamente l’alleato della NATO, la Turchia taglia i legami e pensa alla de-dollarizzazione , la Svizzera rimbalza i contratti di currency swap, e i BRICS creano un proprio veicolo finanziario non basato sul sistema finanziario USA e poi finalmente questa settimana gli oligarchi russi spostano le loro riserve nelle casse di Hong Kong. Ma proprio questa settimana, come riporta RT ,le banche centrali di Russia e Cina hanno concordato una bozza di un contratto sullo swap, che consentirà loro di aumentare gli scambi nelle valute nazionali e tagliare la dipendenza dal dollaro statunitense nei pagamenti bilaterali.”L’accordo stimolerà l’ulteriore sviluppo degli scambi diretti in yuan e rubli sui mercati dei cambi nazionali di Russia e Cina , “il regolatore russo ha detto.
ECONOMIA REALE
Al via il progetto Bce per dare credito alle imprese
Si tratta del Tltro, un credito agevolato alle banche a condizione che i soldi siano "girati" alle imprese.
In Italia arriveranno 52 miliardi
Il Sole 24 Ore, con un articolo firmato da Marco Ferrando, dà notizia che i vertici delle più grandi banche italiane hanno ormai deciso di chiedere alla Bce 51,8 miliardi di euro per finanziare le piccole imprese.
Il tutto nell’ambito del progetto messo a punto da Mario Draghi noto con l’acronimo Tltro (Targeted long term refinancing operations), che sostanzialmente sostituisce il precedente (fallimentare) piano denominato Ltro (senza la T, in pratica), che si avvia alla conclusione con il risultato di aver completamente mancato l’obiettivo di iniettare liquidità nell’economia reale.
Infatti, all’atto pratico, dei 255 miliardi ottenuti dalle banche italiane tra il 2011 e l’inizio del 2012, alla fine di giugno ne risultavano ancora 160 “in pancia”, cioè non utilizzati per il fine che si era prefissa la Bce; ed ora, ovviamente, saranno rimborsati. Molte di queste risorse, in realtà, sono state usate dalle banche per comprare titoli di stato.
Con il nuovo progetto della Bce, tuttavia -cioè quello con la T in più (il Tltro)- questo uso “distorto” dei fondi agevolati non sarà più possibile, perché se non saranno prestati alle imprese dovranno essere restituiti ed, inoltre, “chi non presta non potrà partecipare alle nuove Tltro”. In pratica, sono prestiti agevolati “condizionati”; e francamente c’è da chiedersi perché questa cosa (sacrosanta) non sia stata fatta prima.
Infatti, per cercare di uscire dal tunnel della crisi economica che affligge l’eurozona -e non solo- è assolutamente indispensabile aprire i rubinetti del credito per iniettare linfa vitale nelle casse delle piccole imprese e sperare che si apra un “circolo virtuoso” che porti all’aumento dei consumi, della produzione, dell’occupazione e conseguentemente del Pil.
Draghi ha annunciato che la prima delle otto assegnazioni di fondi previste avverrà a settembre e la seconda a dicembre, per un totale previsto per l’anno in corso pari a circa 400 miliardi e con l’ambizioso obiettivo di arrivare, entro tre anni, all’astronomica cifra di 1.000 miliardi di euro.
Per quanto riguarda le banche italiane, le procedure di rito sono in corso da tempo e la Banca d’Italia ha rilasciato i relativi documenti ai primi di agosto. Come si è detto, si tratta di 51,8 miliardi, richiesti in particolare da Intesa S. Paolo (17 mld), Unicredit (fino a 15 mld) ed altri gruppi per cifre minori, incentivati da un tasso fisso molto basso (0,25%) con scadenza quadriennale e, cosa più importante -visti i brutti precedenti- che possono essere destinati “esclusivamente” al finanziamento delle imprese; in caso contrario le banche dovranno restituire le somme in anticipo alla Bce.
Moreno Morando
(20 agosto 2014)
Al via il progetto Bce per dare credito alle imprese
Si tratta del Tltro, un credito agevolato alle banche a condizione che i soldi siano "girati" alle imprese.
In Italia arriveranno 52 miliardi
Il Sole 24 Ore, con un articolo firmato da Marco Ferrando, dà notizia che i vertici delle più grandi banche italiane hanno ormai deciso di chiedere alla Bce 51,8 miliardi di euro per finanziare le piccole imprese.
Il tutto nell’ambito del progetto messo a punto da Mario Draghi noto con l’acronimo Tltro (Targeted long term refinancing operations), che sostanzialmente sostituisce il precedente (fallimentare) piano denominato Ltro (senza la T, in pratica), che si avvia alla conclusione con il risultato di aver completamente mancato l’obiettivo di iniettare liquidità nell’economia reale.
Infatti, all’atto pratico, dei 255 miliardi ottenuti dalle banche italiane tra il 2011 e l’inizio del 2012, alla fine di giugno ne risultavano ancora 160 “in pancia”, cioè non utilizzati per il fine che si era prefissa la Bce; ed ora, ovviamente, saranno rimborsati. Molte di queste risorse, in realtà, sono state usate dalle banche per comprare titoli di stato.
Con il nuovo progetto della Bce, tuttavia -cioè quello con la T in più (il Tltro)- questo uso “distorto” dei fondi agevolati non sarà più possibile, perché se non saranno prestati alle imprese dovranno essere restituiti ed, inoltre, “chi non presta non potrà partecipare alle nuove Tltro”. In pratica, sono prestiti agevolati “condizionati”; e francamente c’è da chiedersi perché questa cosa (sacrosanta) non sia stata fatta prima.
Infatti, per cercare di uscire dal tunnel della crisi economica che affligge l’eurozona -e non solo- è assolutamente indispensabile aprire i rubinetti del credito per iniettare linfa vitale nelle casse delle piccole imprese e sperare che si apra un “circolo virtuoso” che porti all’aumento dei consumi, della produzione, dell’occupazione e conseguentemente del Pil.
Draghi ha annunciato che la prima delle otto assegnazioni di fondi previste avverrà a settembre e la seconda a dicembre, per un totale previsto per l’anno in corso pari a circa 400 miliardi e con l’ambizioso obiettivo di arrivare, entro tre anni, all’astronomica cifra di 1.000 miliardi di euro.
Per quanto riguarda le banche italiane, le procedure di rito sono in corso da tempo e la Banca d’Italia ha rilasciato i relativi documenti ai primi di agosto. Come si è detto, si tratta di 51,8 miliardi, richiesti in particolare da Intesa S. Paolo (17 mld), Unicredit (fino a 15 mld) ed altri gruppi per cifre minori, incentivati da un tasso fisso molto basso (0,25%) con scadenza quadriennale e, cosa più importante -visti i brutti precedenti- che possono essere destinati “esclusivamente” al finanziamento delle imprese; in caso contrario le banche dovranno restituire le somme in anticipo alla Bce.
Moreno Morando
(20 agosto 2014)
L'inarrestabile avanzata dell'economia cinese
Nella classifica delle piu' grandi imprese del mondo, ai primi posti troviamo tre banche di Pechino.
Proprio nel giorno in cui in Italia, dal comune di Milano, segnalano che i cognomi “Rossi” e “Brambilla” (che un tempo da quelle parti la facevano da padroni) sono stati ormai superati da un cognome cinese (Hu), il “Global Rank” delle imprese più grandi del mondo ha riservato un bel po’ di sorprese a chi ha una visione un po’ superata delle dinamiche dell’Economia globale. Ne dà notizia TMnews.
Infatti, nella classifica di Forbes delle aziende più grandi del globo, la Cina ha superato le aziende statunitensi, relegate in posizione di rincalzo. E’ da qualche tempo ormai che i due colossi (USA e Cina) si fronteggiano in una sorta di “testa a testa” per vincere la gara per l’economia globale nel XXI secolo, ma non ci si aspettava certo di vedere ai primi tre posti tre banche cinesi, guidate dalla ICBC.
La prima banca americana, la JPMorgan Chase, si piazza solo al quarto posto; con altre tre istituti bancari e finanziari statunitensi nelle prime dieci. In sostanza, le banche la fanno da padrone e nella top ten si trovano solo tre “aziende tradizionali”, in particolare del settore energetico, vale a dire : Exxon Mobil, General Electric e PetroChina.
La classifica redatta da Forbes tiene conto delle vendite, dei profitti, del patrimonio e del valore di mercato. TMnews ha sottolineato che fino a qualche anno fa la General Electric faceva il bello ed il cattivo tempo, ma ora deve cedere i primi posti alle banche ed accontentarsi di piazzarsi tra le prime dieci imprese del mondo.
Per quanto riguarda il mondo del web, si segnala che Apple si piazza solo al 15° posto, Samsung al 22°, Microsoft al 32° e Google al 52°. Per quello che attiene, invece, alla aziende italiane è stato evidenziato che solo due imprese del settore energetico trovano posto nelle prime cento del “Global Rank” : l’Eni al 39° posto e l’Enel al 74°.
Moreno Morando
(18 agosto 2014)
Nella classifica delle piu' grandi imprese del mondo, ai primi posti troviamo tre banche di Pechino.
Proprio nel giorno in cui in Italia, dal comune di Milano, segnalano che i cognomi “Rossi” e “Brambilla” (che un tempo da quelle parti la facevano da padroni) sono stati ormai superati da un cognome cinese (Hu), il “Global Rank” delle imprese più grandi del mondo ha riservato un bel po’ di sorprese a chi ha una visione un po’ superata delle dinamiche dell’Economia globale. Ne dà notizia TMnews.
Infatti, nella classifica di Forbes delle aziende più grandi del globo, la Cina ha superato le aziende statunitensi, relegate in posizione di rincalzo. E’ da qualche tempo ormai che i due colossi (USA e Cina) si fronteggiano in una sorta di “testa a testa” per vincere la gara per l’economia globale nel XXI secolo, ma non ci si aspettava certo di vedere ai primi tre posti tre banche cinesi, guidate dalla ICBC.
La prima banca americana, la JPMorgan Chase, si piazza solo al quarto posto; con altre tre istituti bancari e finanziari statunitensi nelle prime dieci. In sostanza, le banche la fanno da padrone e nella top ten si trovano solo tre “aziende tradizionali”, in particolare del settore energetico, vale a dire : Exxon Mobil, General Electric e PetroChina.
La classifica redatta da Forbes tiene conto delle vendite, dei profitti, del patrimonio e del valore di mercato. TMnews ha sottolineato che fino a qualche anno fa la General Electric faceva il bello ed il cattivo tempo, ma ora deve cedere i primi posti alle banche ed accontentarsi di piazzarsi tra le prime dieci imprese del mondo.
Per quanto riguarda il mondo del web, si segnala che Apple si piazza solo al 15° posto, Samsung al 22°, Microsoft al 32° e Google al 52°. Per quello che attiene, invece, alla aziende italiane è stato evidenziato che solo due imprese del settore energetico trovano posto nelle prime cento del “Global Rank” : l’Eni al 39° posto e l’Enel al 74°.
Moreno Morando
(18 agosto 2014)
Fisco, entrate primo semestre -0,4%
Il Mef: cala il gettito tributario e aumenta quello contributivo.
Le entrate tributarie e contributive dei primi sei mesi dell'anno sono diminuite dello 0,4% (corrispondente a -1.257 milioni), rispetto all'analogo periodo dell'anno precedente.
Lo ha comunicato il Mef precisando che «la lieve variazione registrata è la risultante di due elementi principali: la diminuzione del gettito tributario dello 0,7% (-1.510 milioni di euro) e la crescita, in termini di cassa, delle entrate contributive pari a +0,2% (+253 milioni di euro)».
FLESSIONE DELL'IRES. Le entrate tributarie, ha specificato il Ministero dell'Economia, scontano la flessione dell'Ires (-3.449 milioni di euro, pari al -26%) dovuta ai minori versamenti a saldo 2013 e in acconto 2014 effettuati da banche e assicurazioni, conseguenti alla maggiorazione dell'acconto 2013 (fissato al 130% dal decreto legge 133 del 30 novembre 2013).
Il risultato positivo delle entrate contributive sconta invece, peraltro, gli effetti delle misure di riduzione del cuneo fiscale previste per i premi assicurativi Inail dalla legge di stabilità per il 2014.
Lunedì, 18 Agosto 2014
Il Mef: cala il gettito tributario e aumenta quello contributivo.
Le entrate tributarie e contributive dei primi sei mesi dell'anno sono diminuite dello 0,4% (corrispondente a -1.257 milioni), rispetto all'analogo periodo dell'anno precedente.
Lo ha comunicato il Mef precisando che «la lieve variazione registrata è la risultante di due elementi principali: la diminuzione del gettito tributario dello 0,7% (-1.510 milioni di euro) e la crescita, in termini di cassa, delle entrate contributive pari a +0,2% (+253 milioni di euro)».
FLESSIONE DELL'IRES. Le entrate tributarie, ha specificato il Ministero dell'Economia, scontano la flessione dell'Ires (-3.449 milioni di euro, pari al -26%) dovuta ai minori versamenti a saldo 2013 e in acconto 2014 effettuati da banche e assicurazioni, conseguenti alla maggiorazione dell'acconto 2013 (fissato al 130% dal decreto legge 133 del 30 novembre 2013).
Il risultato positivo delle entrate contributive sconta invece, peraltro, gli effetti delle misure di riduzione del cuneo fiscale previste per i premi assicurativi Inail dalla legge di stabilità per il 2014.
Lunedì, 18 Agosto 2014
Le aspirazioni dei nani
“Nani sulle spalle dei giganti“. Così definiva la nostra società già nei primi anni del vecchio millennio il filosofo francese Bernardo di Chartres, che – va detto – non ha lasciato ai posteri molto più di questa metafora. Ma non c’è mai limite al peggio. E quindi, guardando ad alcuni italici “guru” del digitale ed a come la politica lo sta rappresentando in questi giorni, l’impressione che si ha è che i nani siano persino scesi dai giganti. Con il risultato che anche molti tra i più lungimiranti non riescono a guardare oltre il proprio naso. Il problema è che il naso sfiora il suolo, vista la loro patologia.
E sfiorando il suolo fa si che nel digitale non si veda altro che uno strumento di risparmio. È infatti questo il mantra di quanti – da più parti – inneggiano alle magnifiche sorti e progressive dell’Information Technology. Così, mentre in altri paesi i leader spingono i giovani verso il digitale perché leva di crescita e di innovazione, rappresentando orizzonti che del digitale fanno una chiave di sviluppo, in Italia si fa passare il concetto del digitale quale strumento per far risparmiare soldi alla PA. Cosa che, se fosse un espediente per farlo entrare nei processi della nostra macchina amministrativa e da lì andare oltre, non sarebbe nemmeno sbagliata. Ma che a forza di ripeterla come un mantra diventa così convincente da spazzar via tutto il resto e far scordare che il digitale è ben altro.
Insomma: come investire in una Ferrari ed usarla per andare a comprare il giornale all’edicola sotto casa. Ma andare a comprare il giornale in Ferrari vuol dire spendere molto per la benzina, inquinare l’ambiente e non sfruttarne le caratteristiche. In altre parole: meglio una Smart.
Lo stesso succede per il digitale. Considerarlo solo come uno strumento di cost saving rende il processo di digitalizzazione non solo meno efficace, ma addirittura potenzialmente dannoso. I risparmi che si possono conseguire sono infatti proporzionali agli investimenti. Ma investire solo per risparmiare, senza considerare tutto ciò che di nuovo, di diverso, di disruptive questo implichi è un errore. Un errore che si paga avvalorando le tesi di quei neo-luddisti che si chiedono come reimpiegare le persone che dal digitale sono escluse. Visto nell’ottica del solo risparmio il digitale che fa risparmiare è lo stesso digitale che rischia di cancellare posti di lavoro. Se a questo digitale non si affianca quello che apre nuove strade, che sviluppa nuovi contesti, che produce realmente valore, il bilancio non può che essere negativo. Ma per vedere questi vantaggi bisogna saper (e voler) guardare lontano. Per questo c’è chi – altrove – manda satelliti in orbita per portare internet ovunque, promuove un ecosistema digitale supportando realmente l’innovazione, si preoccupa di sviluppare piani industriali che non usino maker e startupper abbandonati a loro stessi solo come inconsapevoli foglie di fico di un sistema bloccato, ma come reali promotori di cambiamento.
Il futuro è di chi lo sa immaginare, diceva Enrico Mattei. E quindi o sapremo tornare ad immaginare il nostro futuro – ed il futuro è digitale, questo è indubbio – oppure, scesi dalle spalle dei giganti, non faremo altro che subire le retroazioni negative della digitalizzazione senza saperne sfruttare le opportunità.
Stefano Epifani ( docente universitario alla Sapienza )
“Nani sulle spalle dei giganti“. Così definiva la nostra società già nei primi anni del vecchio millennio il filosofo francese Bernardo di Chartres, che – va detto – non ha lasciato ai posteri molto più di questa metafora. Ma non c’è mai limite al peggio. E quindi, guardando ad alcuni italici “guru” del digitale ed a come la politica lo sta rappresentando in questi giorni, l’impressione che si ha è che i nani siano persino scesi dai giganti. Con il risultato che anche molti tra i più lungimiranti non riescono a guardare oltre il proprio naso. Il problema è che il naso sfiora il suolo, vista la loro patologia.
E sfiorando il suolo fa si che nel digitale non si veda altro che uno strumento di risparmio. È infatti questo il mantra di quanti – da più parti – inneggiano alle magnifiche sorti e progressive dell’Information Technology. Così, mentre in altri paesi i leader spingono i giovani verso il digitale perché leva di crescita e di innovazione, rappresentando orizzonti che del digitale fanno una chiave di sviluppo, in Italia si fa passare il concetto del digitale quale strumento per far risparmiare soldi alla PA. Cosa che, se fosse un espediente per farlo entrare nei processi della nostra macchina amministrativa e da lì andare oltre, non sarebbe nemmeno sbagliata. Ma che a forza di ripeterla come un mantra diventa così convincente da spazzar via tutto il resto e far scordare che il digitale è ben altro.
Insomma: come investire in una Ferrari ed usarla per andare a comprare il giornale all’edicola sotto casa. Ma andare a comprare il giornale in Ferrari vuol dire spendere molto per la benzina, inquinare l’ambiente e non sfruttarne le caratteristiche. In altre parole: meglio una Smart.
Lo stesso succede per il digitale. Considerarlo solo come uno strumento di cost saving rende il processo di digitalizzazione non solo meno efficace, ma addirittura potenzialmente dannoso. I risparmi che si possono conseguire sono infatti proporzionali agli investimenti. Ma investire solo per risparmiare, senza considerare tutto ciò che di nuovo, di diverso, di disruptive questo implichi è un errore. Un errore che si paga avvalorando le tesi di quei neo-luddisti che si chiedono come reimpiegare le persone che dal digitale sono escluse. Visto nell’ottica del solo risparmio il digitale che fa risparmiare è lo stesso digitale che rischia di cancellare posti di lavoro. Se a questo digitale non si affianca quello che apre nuove strade, che sviluppa nuovi contesti, che produce realmente valore, il bilancio non può che essere negativo. Ma per vedere questi vantaggi bisogna saper (e voler) guardare lontano. Per questo c’è chi – altrove – manda satelliti in orbita per portare internet ovunque, promuove un ecosistema digitale supportando realmente l’innovazione, si preoccupa di sviluppare piani industriali che non usino maker e startupper abbandonati a loro stessi solo come inconsapevoli foglie di fico di un sistema bloccato, ma come reali promotori di cambiamento.
Il futuro è di chi lo sa immaginare, diceva Enrico Mattei. E quindi o sapremo tornare ad immaginare il nostro futuro – ed il futuro è digitale, questo è indubbio – oppure, scesi dalle spalle dei giganti, non faremo altro che subire le retroazioni negative della digitalizzazione senza saperne sfruttare le opportunità.
Stefano Epifani ( docente universitario alla Sapienza )
giovedì 21 agosto 2014
Putin vs Obama : “questa è la Terza Guerra Mondiale”
Il giornalista Giulietto Chiesa ha fatto il punto della situazione nel mondo oggi. Ha parlato in particolare di Ucraina, ma anche del conflitto tra Israele e Palestina e del nascente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Il conflitto in Ucraina, che vede impegnati il nuovo governo di Kiev e i ribelli filorussi, è però quello centrale secondo Chiesa, mentre gli altri, per quanto stiano mietendo migliaia di vittime, sono secondari. Si tratta di una guerra, secondo lo scrittore, che viene fatta grazie alla propaganda dei media occidentali:
“Siamo di fronte ad una propaganda straordinaria condotta dal governo degli Stati Uniti d’America e della Gran Bretagna con l’aiuto, dice Roberts, dei ministeri della propaganda noti come i media occidentali, cioè quelli che vedete tutti i giorni. Una vera e propria isteria collettiva attorno all’Ucraina, non solo, ma innanzitutto attorno all’Ucraina, presentata come un paese sotto attacco della Russia, mentre sta facendo una vera e propria guerra contro la popolazione civile del suo proprio territorio. [...] Una guerra che ha già provocato più di 1.000 vittime civili e probabilmente due o 2.500 morti tra militari e ribelli”, ha detto Chiesa citando Paul Craig Roberts
E ha aggiunto: “Poroshenko, presidente dell’Ucraina, capo di un paese in totale bancarotta, comunica che una volta abbattuta la resistenza del Donbass, l’Ucraina andrà alla guerra e alla riconquista della Crimea. Vuol dire che annuncia una guerra aperta contro la Russia”. Perciò si chiede Chiesa “come può il presidente dell’Ucraina dire queste cose, in queste condizioni?” E la spiegazione è che è “incoraggiato dal suo protettore e padrone degli Stati Uniti d’America“.
E ancora: “L’America di Obama è all’offensiva e gioca a sbancare Putin e la Russia tutta intera. Questo non è un nuovo, diciamo avvitamento della Guerra Fredda, questa è la Terza Guerra Mondiale. Tutti i segni ce lo dicono. [...] L’attacco è concentrico, l’Europa è stata costretta in varia forma a sottostare, sebbene sia decisamente contro gli interessi europei. L’interscambio Europa-Russia è di oltre 420 miliardi di dollari, quello con gli Stati Uniti è inesistente, o, perlomeno, una piccola percentuale”.
Il giornalista Giulietto Chiesa ha fatto il punto della situazione nel mondo oggi. Ha parlato in particolare di Ucraina, ma anche del conflitto tra Israele e Palestina e del nascente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Il conflitto in Ucraina, che vede impegnati il nuovo governo di Kiev e i ribelli filorussi, è però quello centrale secondo Chiesa, mentre gli altri, per quanto stiano mietendo migliaia di vittime, sono secondari. Si tratta di una guerra, secondo lo scrittore, che viene fatta grazie alla propaganda dei media occidentali:
“Siamo di fronte ad una propaganda straordinaria condotta dal governo degli Stati Uniti d’America e della Gran Bretagna con l’aiuto, dice Roberts, dei ministeri della propaganda noti come i media occidentali, cioè quelli che vedete tutti i giorni. Una vera e propria isteria collettiva attorno all’Ucraina, non solo, ma innanzitutto attorno all’Ucraina, presentata come un paese sotto attacco della Russia, mentre sta facendo una vera e propria guerra contro la popolazione civile del suo proprio territorio. [...] Una guerra che ha già provocato più di 1.000 vittime civili e probabilmente due o 2.500 morti tra militari e ribelli”, ha detto Chiesa citando Paul Craig Roberts
E ha aggiunto: “Poroshenko, presidente dell’Ucraina, capo di un paese in totale bancarotta, comunica che una volta abbattuta la resistenza del Donbass, l’Ucraina andrà alla guerra e alla riconquista della Crimea. Vuol dire che annuncia una guerra aperta contro la Russia”. Perciò si chiede Chiesa “come può il presidente dell’Ucraina dire queste cose, in queste condizioni?” E la spiegazione è che è “incoraggiato dal suo protettore e padrone degli Stati Uniti d’America“.
E ancora: “L’America di Obama è all’offensiva e gioca a sbancare Putin e la Russia tutta intera. Questo non è un nuovo, diciamo avvitamento della Guerra Fredda, questa è la Terza Guerra Mondiale. Tutti i segni ce lo dicono. [...] L’attacco è concentrico, l’Europa è stata costretta in varia forma a sottostare, sebbene sia decisamente contro gli interessi europei. L’interscambio Europa-Russia è di oltre 420 miliardi di dollari, quello con gli Stati Uniti è inesistente, o, perlomeno, una piccola percentuale”.
Putin e i Paesi Brics fondano una Banca che sotterra Bretton Woods e rivoluziona la governance mondiale. Sui giornaloni, neppure una riga
di Tino Oldani
Ieri i giornaloni non hanno dedicato neppure una riga a una notizia ben più importante della bocciatura europea di Federica Mogherini. Mi riferisco al vertice dei capi di Stato e di governo dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che martedì 16 luglio si è svolto a Fortaleza (Brasile), ed ha assunto una decisione storica, destinata a rivoluzionare la governance economica mondiale. Definire storica la decisione presa a Fortaleza non credo sia esagerato, poiché avrà conseguenze paragonabili soltanto all'Accordo di Bretton Woods (1944), che poco prima della fine della seconda guerra mondiale disegnò il nuovo ordinamento monetario internazionale, centrato sulla supremazia del dollaro, e su due istituzioni fortemente influenzate dagli Stati Uniti, quali sono il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale.
Da anni i Paesi Brics, che insieme hanno una popolazione di quasi 3 miliardi e un pil in continua crescita, premevano per una nuova Bretton Woods, al fine di avere un peso maggiore nella governance mondiale e porre un argine alla supremazia di un dollaro sempre più instabile, e perciò sempre meno affidabile come moneta di riserva e per gli scambi commerciali. Le rivendicazioni dei Paesi Brics sono state bene illustrate dall'economista Paolo Savona in un saggio di qualche anno fa (“Il ritorno dello Stato padrone. I fondi sovrani e il grande negoziato globale”; Rubbettino), che ora si sta rivelando profetico.
Benché consapevoli che la loro leadership mondiale fosse declinante, gli Stati Uniti di Barack Obama hanno fatto finora orecchio da mercante di fronte a tutte le richieste di una nuova Bretton Woods, ignorando i suggerimenti degli economisti più attenti e quasi irridendo la pretesa dei Paesi emergenti di contare di più. Ai governi che hanno provato a sollevare il problema dell'instabilità del dollaro, ricorda Savona, il Tesoro Usa ha sempre risposto con uno slogan a dir poco arrogante: “Il dollaro è la nostra moneta, ma un vostro problema”. Non minore fortuna hanno avuto le richieste di avere un peso maggiore nelle istituzioni monetarie mondiali. La Cina, per esempio, ha una quota di voto nel Fmi del 4,86%, circa un quarto di quella Usa (16,77%), benché le due economie ormai si equivalgano. Non solo. La quota di voto della Cina è inferiore a quella della Germania (5,88%), e di poco superiore a quella dell'Italia (3,66%). Gli altri Paesi Brics sono ancora più sottovalutati della Cina nel Fmi: la Russia ha il 3,16%, il Brasile il 2,34%, l'India l'1,88%, il Sudafrica lo 0,54%.
Stanchi di essere sotto-rappresentati, dopo anni di trattative deludenti, i paesi Brics hanno deciso di prendere le distanze dal Fmi e dalla Banca Mondiale con un atto formale, che segna l'inizio di un nuovo ordinamento mondiale. Tale atto è la costituzione della Banca Brics, articolata nella New Development Bank (NDB) e in un Fondo di riserva monetario denominato Accordo sui Fondi di Riserva (Contingent Reserve Arrangement, CRA). Il capitale della Banca Brics sarà di 50 miliardi di dollari, finanziato in parti eguali dai cinque Paesi fondatori. Avrà la sede a Shangai (Cina), il primo presidente del Consiglio dei governatori sarà russo, il primo presidente del Consiglio di amministrazione sarà brasiliano, mentre toccherà a un indiano il ruolo di primo presidente della Banca, e il Sudafrica avrà una sede regionale sul proprio territorio. Quanto al Fondo di riserva monetaria, avrà un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, di cui 41 versati dalla Cina, 5 dal Sudafrica, mentre Russia, India e Brasile ne verseranno 18 ciascuno. La Banca sarà operativa a partire dal prossimo anno. Quanto al dollaro, per ora moneta principe anche della nuova Banca Brics, sarà gradualmente sostituito con altre valute negli interventi che di volta in volta saranno messi in campo per aiutare i Paesi con problemi di liquidità.
Il leader russo Vladimir Putin, che ha partecipato al vertice di Fortaleza, non ha mancato di sottolineare l'evento in chiave politica: “L'istituzione della Banca per lo sviluppo dei Paesi Brics permette ai suoi soci di essere più indipendenti dalla politica finanziaria dei Paesi occidentali. E fa parte di un sistema di misure che potrebbe aiutare a prevenire le pressioni sui Paesi che non sono d'accordo con alcune decisioni di politica estera degli Stati Uniti e dei loro alleati”. Chiunque, perfino la Mogherini, può capire il duplice significato del messaggio di Putin: la Banca Brics rappresenta non solo di una rottura della governance monetaria creata 70 anni fa a Bretton Woods, ma è anche una risposta alle sanzioni economiche che gli Stati Uniti e l'Unione europea hanno imposto alla Russia, a seguito delle vicende in Ucraina. Putin uno, Obama zero.
La nuova Banca (la cui prima idea si deve all'India) sarà aperta all'adesione di altri Paesi delle Nazioni Unite, ma la quota dei Paesi Brics non potrà scendere sotto il 55%. Lo scopo della nuova istituzione, recita il comunicato ufficiale, “è di rafforzare, sulla base di sani principi bancari, la cooperazione tra i Paesi Brics, integrare gli sforzi delle istituzioni finanziarie multilaterali e regionali per lo sviluppo globale, contribuendo a conseguire l'obiettivo di una crescita forte, sostenibile ed equilibrata”. Di fatto, è la nascita di una nuova Banca mondiale, dotata di ampie riserve, che si pone come alternativa al Fmi e alla Banca Mondiale, e crea le premesse di una nuova architettura finanziaria globale, dove gli Stati Uniti non potranno più fare il bello e il cattivo tempo. Un evento epocale, che è sui siti di tutto il mondo, tranne che sui giornaloni di casa nostra, tutti presi dalle sorti europee della Mogherini e dalla prima sonora sconfitta di Matteo Renzi. In fondo, una conferma: servilismo e sconfitte vanno sempre a braccetto.
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di Tino Oldani
Ieri i giornaloni non hanno dedicato neppure una riga a una notizia ben più importante della bocciatura europea di Federica Mogherini. Mi riferisco al vertice dei capi di Stato e di governo dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che martedì 16 luglio si è svolto a Fortaleza (Brasile), ed ha assunto una decisione storica, destinata a rivoluzionare la governance economica mondiale. Definire storica la decisione presa a Fortaleza non credo sia esagerato, poiché avrà conseguenze paragonabili soltanto all'Accordo di Bretton Woods (1944), che poco prima della fine della seconda guerra mondiale disegnò il nuovo ordinamento monetario internazionale, centrato sulla supremazia del dollaro, e su due istituzioni fortemente influenzate dagli Stati Uniti, quali sono il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale.
Da anni i Paesi Brics, che insieme hanno una popolazione di quasi 3 miliardi e un pil in continua crescita, premevano per una nuova Bretton Woods, al fine di avere un peso maggiore nella governance mondiale e porre un argine alla supremazia di un dollaro sempre più instabile, e perciò sempre meno affidabile come moneta di riserva e per gli scambi commerciali. Le rivendicazioni dei Paesi Brics sono state bene illustrate dall'economista Paolo Savona in un saggio di qualche anno fa (“Il ritorno dello Stato padrone. I fondi sovrani e il grande negoziato globale”; Rubbettino), che ora si sta rivelando profetico.
Benché consapevoli che la loro leadership mondiale fosse declinante, gli Stati Uniti di Barack Obama hanno fatto finora orecchio da mercante di fronte a tutte le richieste di una nuova Bretton Woods, ignorando i suggerimenti degli economisti più attenti e quasi irridendo la pretesa dei Paesi emergenti di contare di più. Ai governi che hanno provato a sollevare il problema dell'instabilità del dollaro, ricorda Savona, il Tesoro Usa ha sempre risposto con uno slogan a dir poco arrogante: “Il dollaro è la nostra moneta, ma un vostro problema”. Non minore fortuna hanno avuto le richieste di avere un peso maggiore nelle istituzioni monetarie mondiali. La Cina, per esempio, ha una quota di voto nel Fmi del 4,86%, circa un quarto di quella Usa (16,77%), benché le due economie ormai si equivalgano. Non solo. La quota di voto della Cina è inferiore a quella della Germania (5,88%), e di poco superiore a quella dell'Italia (3,66%). Gli altri Paesi Brics sono ancora più sottovalutati della Cina nel Fmi: la Russia ha il 3,16%, il Brasile il 2,34%, l'India l'1,88%, il Sudafrica lo 0,54%.
Stanchi di essere sotto-rappresentati, dopo anni di trattative deludenti, i paesi Brics hanno deciso di prendere le distanze dal Fmi e dalla Banca Mondiale con un atto formale, che segna l'inizio di un nuovo ordinamento mondiale. Tale atto è la costituzione della Banca Brics, articolata nella New Development Bank (NDB) e in un Fondo di riserva monetario denominato Accordo sui Fondi di Riserva (Contingent Reserve Arrangement, CRA). Il capitale della Banca Brics sarà di 50 miliardi di dollari, finanziato in parti eguali dai cinque Paesi fondatori. Avrà la sede a Shangai (Cina), il primo presidente del Consiglio dei governatori sarà russo, il primo presidente del Consiglio di amministrazione sarà brasiliano, mentre toccherà a un indiano il ruolo di primo presidente della Banca, e il Sudafrica avrà una sede regionale sul proprio territorio. Quanto al Fondo di riserva monetaria, avrà un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, di cui 41 versati dalla Cina, 5 dal Sudafrica, mentre Russia, India e Brasile ne verseranno 18 ciascuno. La Banca sarà operativa a partire dal prossimo anno. Quanto al dollaro, per ora moneta principe anche della nuova Banca Brics, sarà gradualmente sostituito con altre valute negli interventi che di volta in volta saranno messi in campo per aiutare i Paesi con problemi di liquidità.
Il leader russo Vladimir Putin, che ha partecipato al vertice di Fortaleza, non ha mancato di sottolineare l'evento in chiave politica: “L'istituzione della Banca per lo sviluppo dei Paesi Brics permette ai suoi soci di essere più indipendenti dalla politica finanziaria dei Paesi occidentali. E fa parte di un sistema di misure che potrebbe aiutare a prevenire le pressioni sui Paesi che non sono d'accordo con alcune decisioni di politica estera degli Stati Uniti e dei loro alleati”. Chiunque, perfino la Mogherini, può capire il duplice significato del messaggio di Putin: la Banca Brics rappresenta non solo di una rottura della governance monetaria creata 70 anni fa a Bretton Woods, ma è anche una risposta alle sanzioni economiche che gli Stati Uniti e l'Unione europea hanno imposto alla Russia, a seguito delle vicende in Ucraina. Putin uno, Obama zero.
La nuova Banca (la cui prima idea si deve all'India) sarà aperta all'adesione di altri Paesi delle Nazioni Unite, ma la quota dei Paesi Brics non potrà scendere sotto il 55%. Lo scopo della nuova istituzione, recita il comunicato ufficiale, “è di rafforzare, sulla base di sani principi bancari, la cooperazione tra i Paesi Brics, integrare gli sforzi delle istituzioni finanziarie multilaterali e regionali per lo sviluppo globale, contribuendo a conseguire l'obiettivo di una crescita forte, sostenibile ed equilibrata”. Di fatto, è la nascita di una nuova Banca mondiale, dotata di ampie riserve, che si pone come alternativa al Fmi e alla Banca Mondiale, e crea le premesse di una nuova architettura finanziaria globale, dove gli Stati Uniti non potranno più fare il bello e il cattivo tempo. Un evento epocale, che è sui siti di tutto il mondo, tranne che sui giornaloni di casa nostra, tutti presi dalle sorti europee della Mogherini e dalla prima sonora sconfitta di Matteo Renzi. In fondo, una conferma: servilismo e sconfitte vanno sempre a braccetto.
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De Gaulle disse che l'Italia non è un paese povero ma un povero paese
Una volta Charles De Gaulle disse che l'Italia non era un Paese povero, ma un povero Paese. Aveva ragione. Non stiamo certo peggio di cinquant'anni fa, ma abbiamo un disperato bisogno di riforme che sblocchino paralisi istituzionale, immobilismo sociale, declino manifatturiero. Ma, invocate da tutti e quasi mai realizzate, le riforme restano una specie di miraggio. Più sono necessarie, più forti sono le resistenze. Il salvataggio di Alitalia ne è un clamoroso esempio.
Prima il rifiuto dissennato di integrare il vettore di bandiera in un player del trasporto aereo europeo o mondiale. Poi, puntuale, il disastro. Un piano industriale demenziale, sbilanciato sulle rotte interne, disintegrato dalla concorrenza dell'alta velocità ferroviaria. Ammortizzatori sociali, pagati dal contribuente, così generosi da fare invidia al sultano del Brunei. Un debito accumulato di oltre un miliardo di euro. Ora, posso anche capire che Silvio Berlusconi e Corrado Passera, i grandi registi dell'operazione «Air-France e Klm no pasarán», facciano finta di niente. Il primo ha i guai che conosciamo. Il secondo è impegnato a progettare questa volta il salvataggio dell'Italia (senza ali). Ma i sindacati sono ancora in campo, e stanno negoziando la partnership con Ethiad.
Nel 2008 i sindacati sono stati gli ascari di quella operazione. Non hanno nulla da rimproverarsi? La Cgil si è sfilata dall'accordo in nome della cara, vecchia cassa integrazione, per tenere incollati all'azienda tutti i dipendenti, magari in eterno. Mentre, come ha osservato Pietro Ichino, se in esso c'è una novità positiva è proprio il previsto utilizzo del contratto di ricollocazione. Probabilmente i leader confederali la pensano come Machiavelli, quando ammoniva che «non c'è niente di più difficile da condurre, né più dubbioso di successo, né più dannoso da gestire, dell'iniziare un nuovo ordine di cose».
Dal bloc notes di michele magno
Una volta Charles De Gaulle disse che l'Italia non era un Paese povero, ma un povero Paese. Aveva ragione. Non stiamo certo peggio di cinquant'anni fa, ma abbiamo un disperato bisogno di riforme che sblocchino paralisi istituzionale, immobilismo sociale, declino manifatturiero. Ma, invocate da tutti e quasi mai realizzate, le riforme restano una specie di miraggio. Più sono necessarie, più forti sono le resistenze. Il salvataggio di Alitalia ne è un clamoroso esempio.
Prima il rifiuto dissennato di integrare il vettore di bandiera in un player del trasporto aereo europeo o mondiale. Poi, puntuale, il disastro. Un piano industriale demenziale, sbilanciato sulle rotte interne, disintegrato dalla concorrenza dell'alta velocità ferroviaria. Ammortizzatori sociali, pagati dal contribuente, così generosi da fare invidia al sultano del Brunei. Un debito accumulato di oltre un miliardo di euro. Ora, posso anche capire che Silvio Berlusconi e Corrado Passera, i grandi registi dell'operazione «Air-France e Klm no pasarán», facciano finta di niente. Il primo ha i guai che conosciamo. Il secondo è impegnato a progettare questa volta il salvataggio dell'Italia (senza ali). Ma i sindacati sono ancora in campo, e stanno negoziando la partnership con Ethiad.
Nel 2008 i sindacati sono stati gli ascari di quella operazione. Non hanno nulla da rimproverarsi? La Cgil si è sfilata dall'accordo in nome della cara, vecchia cassa integrazione, per tenere incollati all'azienda tutti i dipendenti, magari in eterno. Mentre, come ha osservato Pietro Ichino, se in esso c'è una novità positiva è proprio il previsto utilizzo del contratto di ricollocazione. Probabilmente i leader confederali la pensano come Machiavelli, quando ammoniva che «non c'è niente di più difficile da condurre, né più dubbioso di successo, né più dannoso da gestire, dell'iniziare un nuovo ordine di cose».
Dal bloc notes di michele magno
Anche Wall Street scommette sulla Terza Guerra Mondiale
Scritto il 17/8/14 da Libre Associazioni di idee
Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Tymoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma? Perché infine rovesciare Yanukovic quando lo stesso quarto e ultimo presidente dell’Ucraina aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Nouriel RoubiniShell? La bellezza di quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia. Insomma: Yanukovic – presentato come «l’uomo di Mosca» da tutti i media occidentali – non era poi quel grande amico di Putin. Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento giugulatorio di “associazione” all’Unione Europea? Ma fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte assai segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato imposto, con le buone o con le cattive. No, tutti questi interrogativi non avevano risposte adeguate. Doveva esserci qualcos’altro. La fretta con cui Washington aveva premuto, e Varsavia aveva agito ai suoi ordini, indicava qualche altra impellente necessità. A me fu subito chiaro che il golpe – non a caso un golpe con le stigmate naziste così visibili – era diretto non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon, tramite la esecutrice Victoria Nuland, volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale. Ma perché la fretta? Perché accelerare lo scontro e portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino? Era, in fondo, uno scenario che io stesso avevo previsto sarebbe accaduto. Ma assistevo a un’improvvisa e drammatica accelerazione. Doveva esserci qualcos’altro a spiegare la fretta. E le dimensioni della rottura che si stava creando. Non si trattava di una crisi regionale, non un episodio Macelleria di civili nell'Est dell'Ucrainapasseggero. Le potenziali ripercussioni erano evidenti: uno scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.
Bisognava spiegare il senso e le ragioni dell’accelerazione. Io non sono un economista (lo ripeto sempre, per non eccitare le rimostranze degli scopritori dell’aria calda). Non sono neanche un esperto dei sotterfugi della finanza mondiale. Credo poco o nulla ai numeri che arrivano da quella parte, convinto ormai da tempo che sono in gran parte falsi o comunque molto manipolati. Ma tutto il nervosismo che da tempo leggo nei commenti di coloro che dicono d’intendersene (anche perché su quei trucchi ci hanno vissuto e ci vivono), mi ha fatto pensare che qualcosa non funzionava nei ragionamenti sopra esposti. Così mi sono trovato, con qualche sorpresa, in buona compagnia a parlare di “inizio della Terza Guerra Mondiale”. Devo prima di tutto esprimere i miei ringraziamenti a Roberto Savio, ideatore di quel fondamentale bollettino che si chiama “Other News”, con sottotitolo esplicativo: “L’informazione che i mercati eliminano”. Il primo di agosto, “Other News” ha pubblicato una rassegna che riprende numerosi spunti dal “Washington’s Blog”, così intitolata: “Un gruppo di esperti finanziari ai massimi livelli afferma che la Terza Guerra Mondiale è in arrivo, a meno che non la fermiamo”. Saccheggerò questa rassegna, che mi pare estremamente istruttiva.
In primo luogo i nomi sono effettivamente grossi calibri, a giudicare dalla frequenza con cui i mercati li citano. Prendiamo per esempio Nouriel Rubini, che a gennaio di quest’anno twittava da Davos: «Molti oratori qui paragonano il 2014 con il 1914, quando la Prima Guerra Mondiale esplose e nessuno se l’aspettava. Siamo di fronte a un cigno nero nella forma di una guerra tra Cina e Giappone?» Fuochino. Ma gli fa eco Kile Bass, multimiliardario manager di hedge funds, che prima cita un «influente analista cinese» e poi lo stesso premier giapponese Abe, che «non escludono un confronto militare tra Cina e Giappone». Aggiungendo previsioni molto ben descritte, che in bocca a un gestore finanziario di quel calibro non possono essere trascurate. «Miliardi di dollari di depositi bancari saranno ristrutturati – ci informa Kile Bass – e milioni di prudenti risparmiatori finanziari perderanno grandi percentuali del loro reale potere d’acquisto esattamente nel momento sbagliato delle loro vite [sempre che ci sia un momento giusto per perdere i propri averi, ndr]. Neanche questa volta il mondo finirà, ma la struttura sociale delle nazioni influenti sarà posta in acuta tensione e in qualche caso fatta a pezzi. (…) Noi David Stockmancrediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza dell’attuale situazione economica globale».
Gli fa eco l’ex capo dell’Office for Management and Budget ai tempi di Reagan, David Stockman. Anche per lui lo scontro in atto tra America e Russia condurrà alla terza guerra mondiale. Un po’ più generico sulle modalità, ma convinto anche lui che si sta andando verso «una grossa guerra» (“a major war”) è l’ex analista tecnico di Goldman Sachs, Charles Nenner, che, ora in proprio, vanta tra i suoi clienti numerosi importanti hedge funds, banche, e un certo numero di ricchissimi investitori internazionali. Altrettanto, con qualche variazione, pensano investitori americani di primo piano come James Dines e Marc Faber. Quest’ultimo afferma apertamente che il governo americano comincerà nuove guerre in risposta alla crisi economica in atto. «La prossima cosa che il governo farà per distrarre l’attenzione della gente dalle cattive condizioni economiche – scrive Marc Faber – sarà di cominciare una qualche guerra da qualche parte».
Tutto chiaro, ma allora come mai i giornali e le tv ci dicono che l’America va fortissimo? Pochi giorni fa Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – dice la stessa cosa: «Occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico». Gli ultimi due pezzi che ha scritto li ha intitolati così: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”. Non è ben chiaro se tutti questi profeti stiano enunciando prognosi sincere o siano semplicemente festeggiando in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettano dalla guerra, essendo evidente, da sempre, che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. Ma l’insistenza Charles Nennercon cui il tema viene sollevato indica comunque che il puzzo di bruciato tutti costoro lo sentono in anticipo.
Altri, per esempio la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, osservano che il mondo è attraversato da una «guerra delle valute» che sta diventando globale, cioè di tutti contro tutti. Da non dimenticare che la seconda guerra mondiale arrivò dopo una serie violenta di svalutazioni competitive. Sta accadendo ora la stessa cosa, quando le nazioni svalutano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni. E molti si stanno accorgendo che la nuova banca, creata dal Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituisce una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avviene in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa. Come scrive Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’è il rischio che gli Stati Uniti si trovino «trascinati» in «guerre asimmetriche» di valute, in grado di accrescere le incertezze globali. È evidente che Rickards sta dalla parte americana. Ma, se il Pentagono – e non la Federal Reserve – organizza questo tipo di “giochi”, vuol dire che ci siamo già dentro fino al collo e che il loro carattere militare è fuori discussione.
Del resto (questa volta parla il multimiliardario Hugo Salinas Price) «sono molti a chiedersi quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro». Altri mettono il dito sulla crescente scarsità di risorse, soprattutto energetiche. Altri ancora guardano alla Cina come a un avversario bisbetico e sempre più incontrollabile – forse il protagonista di quella guerra asimmetrica citata da Jim Rickards. Gerald Celente, autore di accurate previsioni finanziarie e geopolitiche da molti anni, va anche lui seccamente alla conclusione: «Una terza guerra mondiale comincerà presto». Jim Rogers, un altro investitore internazionale miliardario, punta gli occhi sull’Europa: «Se si continua a salvare uno Stato dietro l’altro si finirà in un’altra guerra mondiale». Dunque continuiamo a strozzare i popoli europei, con l’obiettivo di evitare la guerra. Un pacifismo molto sospetto, ma comunque allarmato. Ovviamente sarà utile Gerald Celenteguardarsi da certi “pacifisti”. Ma questa rassegna è utile per capire che l’allarme è in aumento.
La Cina, senza fare troppo rumore, fa provvista di risorse, energetiche e territoriali, solo che invece di mandare le proprie cannoniere (non è il tempo), quelle risorse se le compra, con i denari del debito americano. Putin deve fronteggiare la prima offensiva e non ha tempo da perdere. Tra l’altro un tribunale olandese, senza alcuna autorità o potere, ha decretato che la Russia dovrà pagare 50 miliardi di dollari, più gl’interessi, alla Yukos, cioè a quel bandito di Mikhail Khodorkovskij che la Russia ha scarcerato qualche mese fa con un gesto di distensione verso l’Europa (si noti che il tribunale sedeva nello stesso paese che aveva avuto il più alto numero di vittime nell’abbattimento del Boeing delle linee aeree malaysiane). Sarà stato un caso? Comunque, uno dei più vicini consiglieri di Putin, di fronte alla domanda “cosa farà la Russia di fronte a quella sentenza?”, ha risposto stringendosi nelle spalle: «C’è una Giulietto Chiesaguerra alle porte in Europa. Lei pensa realmente che una tale decisione abbia qualche importanza?».
Giuridicamente non ce l’ha, ma sarà usata dai centri di comando dell’Occidente per colpire i beni russi all’estero, per sequestrare e congelare conti bancari, proprietà azionarie. Ecco una guerra asimmetrica appena iniziata senza essere stata nemmeno dichiarata. Un influente settimanale americano ha dedicato la sua copertina a Vladimir Putin, con questo commento: “Il Paria”. Un titolo che è, invece, una dichiarazione di guerra. Solo che non è stata pronunciata dal Dipartimento di Stato, bensì dal “ministero della propaganda”, cioè dai media occidentali. È stato Paul Craig Roberts a usare questa definizione in un articolo di qualche giorno fa. Chi è Paul Craig Roberts? È stato Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo. L’articolo era intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).
(Giulietto Chiesa, “Chi parla di Terza Guerra Mondiale?”, da “Megachip” del 6 agosto 2014).
Scritto il 17/8/14 da Libre Associazioni di idee
Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Tymoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma? Perché infine rovesciare Yanukovic quando lo stesso quarto e ultimo presidente dell’Ucraina aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Nouriel RoubiniShell? La bellezza di quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia. Insomma: Yanukovic – presentato come «l’uomo di Mosca» da tutti i media occidentali – non era poi quel grande amico di Putin. Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento giugulatorio di “associazione” all’Unione Europea? Ma fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte assai segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato imposto, con le buone o con le cattive. No, tutti questi interrogativi non avevano risposte adeguate. Doveva esserci qualcos’altro. La fretta con cui Washington aveva premuto, e Varsavia aveva agito ai suoi ordini, indicava qualche altra impellente necessità. A me fu subito chiaro che il golpe – non a caso un golpe con le stigmate naziste così visibili – era diretto non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon, tramite la esecutrice Victoria Nuland, volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale. Ma perché la fretta? Perché accelerare lo scontro e portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino? Era, in fondo, uno scenario che io stesso avevo previsto sarebbe accaduto. Ma assistevo a un’improvvisa e drammatica accelerazione. Doveva esserci qualcos’altro a spiegare la fretta. E le dimensioni della rottura che si stava creando. Non si trattava di una crisi regionale, non un episodio Macelleria di civili nell'Est dell'Ucrainapasseggero. Le potenziali ripercussioni erano evidenti: uno scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.
Bisognava spiegare il senso e le ragioni dell’accelerazione. Io non sono un economista (lo ripeto sempre, per non eccitare le rimostranze degli scopritori dell’aria calda). Non sono neanche un esperto dei sotterfugi della finanza mondiale. Credo poco o nulla ai numeri che arrivano da quella parte, convinto ormai da tempo che sono in gran parte falsi o comunque molto manipolati. Ma tutto il nervosismo che da tempo leggo nei commenti di coloro che dicono d’intendersene (anche perché su quei trucchi ci hanno vissuto e ci vivono), mi ha fatto pensare che qualcosa non funzionava nei ragionamenti sopra esposti. Così mi sono trovato, con qualche sorpresa, in buona compagnia a parlare di “inizio della Terza Guerra Mondiale”. Devo prima di tutto esprimere i miei ringraziamenti a Roberto Savio, ideatore di quel fondamentale bollettino che si chiama “Other News”, con sottotitolo esplicativo: “L’informazione che i mercati eliminano”. Il primo di agosto, “Other News” ha pubblicato una rassegna che riprende numerosi spunti dal “Washington’s Blog”, così intitolata: “Un gruppo di esperti finanziari ai massimi livelli afferma che la Terza Guerra Mondiale è in arrivo, a meno che non la fermiamo”. Saccheggerò questa rassegna, che mi pare estremamente istruttiva.
In primo luogo i nomi sono effettivamente grossi calibri, a giudicare dalla frequenza con cui i mercati li citano. Prendiamo per esempio Nouriel Rubini, che a gennaio di quest’anno twittava da Davos: «Molti oratori qui paragonano il 2014 con il 1914, quando la Prima Guerra Mondiale esplose e nessuno se l’aspettava. Siamo di fronte a un cigno nero nella forma di una guerra tra Cina e Giappone?» Fuochino. Ma gli fa eco Kile Bass, multimiliardario manager di hedge funds, che prima cita un «influente analista cinese» e poi lo stesso premier giapponese Abe, che «non escludono un confronto militare tra Cina e Giappone». Aggiungendo previsioni molto ben descritte, che in bocca a un gestore finanziario di quel calibro non possono essere trascurate. «Miliardi di dollari di depositi bancari saranno ristrutturati – ci informa Kile Bass – e milioni di prudenti risparmiatori finanziari perderanno grandi percentuali del loro reale potere d’acquisto esattamente nel momento sbagliato delle loro vite [sempre che ci sia un momento giusto per perdere i propri averi, ndr]. Neanche questa volta il mondo finirà, ma la struttura sociale delle nazioni influenti sarà posta in acuta tensione e in qualche caso fatta a pezzi. (…) Noi David Stockmancrediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza dell’attuale situazione economica globale».
Gli fa eco l’ex capo dell’Office for Management and Budget ai tempi di Reagan, David Stockman. Anche per lui lo scontro in atto tra America e Russia condurrà alla terza guerra mondiale. Un po’ più generico sulle modalità, ma convinto anche lui che si sta andando verso «una grossa guerra» (“a major war”) è l’ex analista tecnico di Goldman Sachs, Charles Nenner, che, ora in proprio, vanta tra i suoi clienti numerosi importanti hedge funds, banche, e un certo numero di ricchissimi investitori internazionali. Altrettanto, con qualche variazione, pensano investitori americani di primo piano come James Dines e Marc Faber. Quest’ultimo afferma apertamente che il governo americano comincerà nuove guerre in risposta alla crisi economica in atto. «La prossima cosa che il governo farà per distrarre l’attenzione della gente dalle cattive condizioni economiche – scrive Marc Faber – sarà di cominciare una qualche guerra da qualche parte».
Tutto chiaro, ma allora come mai i giornali e le tv ci dicono che l’America va fortissimo? Pochi giorni fa Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – dice la stessa cosa: «Occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico». Gli ultimi due pezzi che ha scritto li ha intitolati così: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”. Non è ben chiaro se tutti questi profeti stiano enunciando prognosi sincere o siano semplicemente festeggiando in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettano dalla guerra, essendo evidente, da sempre, che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. Ma l’insistenza Charles Nennercon cui il tema viene sollevato indica comunque che il puzzo di bruciato tutti costoro lo sentono in anticipo.
Altri, per esempio la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, osservano che il mondo è attraversato da una «guerra delle valute» che sta diventando globale, cioè di tutti contro tutti. Da non dimenticare che la seconda guerra mondiale arrivò dopo una serie violenta di svalutazioni competitive. Sta accadendo ora la stessa cosa, quando le nazioni svalutano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni. E molti si stanno accorgendo che la nuova banca, creata dal Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituisce una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avviene in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa. Come scrive Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’è il rischio che gli Stati Uniti si trovino «trascinati» in «guerre asimmetriche» di valute, in grado di accrescere le incertezze globali. È evidente che Rickards sta dalla parte americana. Ma, se il Pentagono – e non la Federal Reserve – organizza questo tipo di “giochi”, vuol dire che ci siamo già dentro fino al collo e che il loro carattere militare è fuori discussione.
Del resto (questa volta parla il multimiliardario Hugo Salinas Price) «sono molti a chiedersi quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro». Altri mettono il dito sulla crescente scarsità di risorse, soprattutto energetiche. Altri ancora guardano alla Cina come a un avversario bisbetico e sempre più incontrollabile – forse il protagonista di quella guerra asimmetrica citata da Jim Rickards. Gerald Celente, autore di accurate previsioni finanziarie e geopolitiche da molti anni, va anche lui seccamente alla conclusione: «Una terza guerra mondiale comincerà presto». Jim Rogers, un altro investitore internazionale miliardario, punta gli occhi sull’Europa: «Se si continua a salvare uno Stato dietro l’altro si finirà in un’altra guerra mondiale». Dunque continuiamo a strozzare i popoli europei, con l’obiettivo di evitare la guerra. Un pacifismo molto sospetto, ma comunque allarmato. Ovviamente sarà utile Gerald Celenteguardarsi da certi “pacifisti”. Ma questa rassegna è utile per capire che l’allarme è in aumento.
La Cina, senza fare troppo rumore, fa provvista di risorse, energetiche e territoriali, solo che invece di mandare le proprie cannoniere (non è il tempo), quelle risorse se le compra, con i denari del debito americano. Putin deve fronteggiare la prima offensiva e non ha tempo da perdere. Tra l’altro un tribunale olandese, senza alcuna autorità o potere, ha decretato che la Russia dovrà pagare 50 miliardi di dollari, più gl’interessi, alla Yukos, cioè a quel bandito di Mikhail Khodorkovskij che la Russia ha scarcerato qualche mese fa con un gesto di distensione verso l’Europa (si noti che il tribunale sedeva nello stesso paese che aveva avuto il più alto numero di vittime nell’abbattimento del Boeing delle linee aeree malaysiane). Sarà stato un caso? Comunque, uno dei più vicini consiglieri di Putin, di fronte alla domanda “cosa farà la Russia di fronte a quella sentenza?”, ha risposto stringendosi nelle spalle: «C’è una Giulietto Chiesaguerra alle porte in Europa. Lei pensa realmente che una tale decisione abbia qualche importanza?».
Giuridicamente non ce l’ha, ma sarà usata dai centri di comando dell’Occidente per colpire i beni russi all’estero, per sequestrare e congelare conti bancari, proprietà azionarie. Ecco una guerra asimmetrica appena iniziata senza essere stata nemmeno dichiarata. Un influente settimanale americano ha dedicato la sua copertina a Vladimir Putin, con questo commento: “Il Paria”. Un titolo che è, invece, una dichiarazione di guerra. Solo che non è stata pronunciata dal Dipartimento di Stato, bensì dal “ministero della propaganda”, cioè dai media occidentali. È stato Paul Craig Roberts a usare questa definizione in un articolo di qualche giorno fa. Chi è Paul Craig Roberts? È stato Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo. L’articolo era intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).
(Giulietto Chiesa, “Chi parla di Terza Guerra Mondiale?”, da “Megachip” del 6 agosto 2014).
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